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La canapa dei telai e delle mamme

Questa la voglio raccontare.

Quando, nel 1999, uscì il mio libro Trama e ordito, mamme che tessono la vita feci un battage pubblicitario che mi costò molte energie. Si sa, l’editoria locale è tale solo di nome: nei fatti gli autori, più o meno importanti, più o meno validi, si devono autogestire e darsi da fare, anche finanziariamente. Ma questo è un discorso che approfondiremo in altra occasione.
Torniamo a Trama e ordito: è un omaggio al lavoro delle donne delle generazioni precedenti alla mia sviluppato indagando la tradizione della coltivazione casalinga della pianta di canapa per ottenerne la fibra da filare e tessere.

Il libro è piaciuto e a livello locale (tenendo presente l’autogestione di cui sopra) è stato un piccolo successo. Tanto che è finito anche su Internet, elencato in un sito che raccoglie tutti i “Libri sulla canapa” (Maria compresa!).

Immaginate il mio imbarazzo quando mi telefonarono, da Roma, degli ufficiali della Polizia di Stato che mi chiedevano una copia – questa la scusa – per farne una recensione da pubblicare sulla loro rivista!
Devono aver verificato subito che la “mia” canapa era davvero innocua! La recensione dei poliziotti, per la cronaca, non l’ho mai vista…
Chissà se anche a Gambettola, nel prossimo fine settimna, ci saranno agenti a controllare: io, comunque, ci sarò. Il 17 e il 18 novembre nella cittadina da cui proviene la mia famiglia, a pochi chilometri da Cesena, si tiene infatti l’Antica Fiera della Canapa. Il programma è molto ricco e interessante.
Fra le altre cose sono previste dimostrazioni pratiche su antichi telai dove i bambini delle elementari mostreranno quanto ha insegnato loro un’ex bidella nel laboratorio di tessitura che la scuola organizza da diversi anni. La signora è un’esperta tessitrice, oggi bisnonna, che negli anni ’40, guarda caso, è stata allieva di mamma Pierina, protagonista di Trama e ordito.
La Fiera di Gambettola, per chi comprende il valore delle fatiche dei nostri padri (e delle nostre madri) è un appuntamento da non perdere.

O che bel mestiere, fare il favoliere…

Una, dieci, cento favole per Gramos, con l’augurio che la sua abbia un lieto fine.

La rete, si sa, porta lontano. Entri in un sito (o in un blog) che ti invita ad accedere ad un altro, che ti linka a destra, che ti rimanda a sinistra, sù, giù, di là, di qua.

Insomma, i navigatori sanno da dove salpano, ma mai dove approdano.

E’ capitato così: non so più per quale strada, ma un mesetto fa sono arrivata al blog Balene Bianche di Sabrina Campolongo. Mi è risultata simpatica già per le prime righe della sua presentazione (“Scrivo e vivo. O vivo e scrivo. Vale la proprietà commutativa. Una cosa non esclude l’altra.”). Sabrina ha avuto l’idea di aiutare Gramos, un ragazzino kosovaro di 12 anni che per una grave malattia ha bisogno di costosissime cure, regalandogli delle favole. Non libri già confezionati (che sarebbe così facile e veloce!), ma storie nostre, scritte per lui.

I blogger hanno risposto con entusiasmo, me compresa.

A dire il vero, ho adattato una favola già pronta, ancora inedita, che avevo scritto per l’Istituto Oncologico Romagnolo e letto ai bambini riminesi nella piazza centrale della città mentre vestivo i caldi panni della Befana.

“La Befana e la coperta che scioglie il ghiaccio”, che in versione originale potete leggere qui (nella sezione Libri di Cristella.it) insieme ad alcune altre favole scelte, è stata ritenuta adatta dalla giuria a venire pubblicata in un volume che sarà venduto in tutta Italia. I proventi serviranno ad aiutare Gramos.

La notizia della mia “vittoria” è arrivata via mail lunedì scorso, in una giornata funestata da temporali e tempeste, dove il sole che di solito brilla sul regno di Regina Cristella era coperto da nuvoloni neri.

Ecco, come mi è capitato spesso, nei momenti più tristi arriva qualcosa che non aspettavo (una notizia, una persona, un sorriso), che soffia via le nuvole in un battibaleno… Ancora una volta, forse, il mio Angelo Custode (mamma Pierina) ha manovrato i suoi invisibili fili.

Così, la bella Sabrina, il piccolo Gramos, gli altri scrittori scelti (anche famosi, eh! guardate qui la lista…) entrano di diritto nella “favola di Cristella”. 

Dove la parola “fine”, volutamente, non è stata scritta.

Quando il libro sarà pubblicato, lo farò sapere via blog. Dovrà partire una nuova catena fra gli amici di Cristella e di Gramos.

A m’arcmand!

Ma tu, sogni in italiano o in dialetto?

C’è un buon motivo, se già dall’inizio nel mio sito ho inserito le sezioni Dialetto e Tradizioni.
Sono nata in campagna, a Sala di Cesenatico. Per i primi tre/quattro anni della mia vita ho sentito parlare unicamente il dialetto e di conseguenza ho balbettato le prime parole in questa lingua: sì, sono nata dialettofona.
Poi, col trasferimento al mare (erano i tempi del boom economico, primi anni Sessanta, quando con qualche cambiale ci si poteva lanciare nell’avventura ed iniziare a tirar su una pensioncina) ai miei genitori venne detto che non andava proprio bene che una bimbetta parlasse in dialetto: bisognava iniziare ad insegnarle l’italiano.

Immagino la loro fatica. In pratica, in casa si incominciarono ad usare due lingue: l’italiano con me – la piccola da affrancare dalla campagna – e il dialetto con gli altri figli.
Teresa, Tiziana e Domenico, di qualche anno più grandi di me, sono stati dunque salvati dal dato anagrafico. Un’abitudine, quella della doppia lingua, mantenuta poi per tutta la loro vita. Che fortuna: una mamma e un babbo poliglotti (e bravi)!
Le mie sorelle e mio fratello si sono sempre rivolti loro in dialetto, dando del “voi”, perché così si usava.
Mà, av voj bén”: sembra strano, vero, che un uomo di quasi sessant’anni si rivolga con questa frase (“mamma vi voglio bene”) alla vecchietta ormai sfinita stesa nel letto d’ospedale? Non era un “voi” distante. Era caldo, abbracciava.
E valeva di sicuro molto più di quel freddo “tu”, che sarebbe stato in una lingua straniera, non loro.
Quando mi imbatto in una canzone, un testo teatrale o, semplicemente, un dialogo privato nella lingua dei miei genitori, sento qualcosa che si muove dentro, che si apre. Una sensazione simile a quella che provo quando ascolto certe composizioni di Mozart, non so perché…
Il dialetto, lingua orale, muore.
Muore con i vecchi.
Muore nel momento in cui se ne vanno coloro che “sognano in dialetto” (a dirla con Gianfranco Miro Gori, il sindaco-poeta di San Mauro Pascoli).
E allora, cosa si può fare?
Qualcosa in provincia di Rimini si muove: nei giorni scorsi, ad esempio, è stato presentato il progetto “In viaggio con il dialetto!”. Si tratta di itinerari didattici per i ragazzi delle scuole della Valconca e della Valmarecchia, coordinati e condotti da Gabriele Bianchini e Vincenzo Sanchini.
Iniziativa encomiabile, anche se la sempre più alta presenza di ragazzi stranieri nelle nostre aule mi fa pensare che sia già troppo tardi, che progetti di questo tipo si dovevano fare dieci-quindici anni fa.
Anche il poeta milanese Franco Loi esprime i suoi dubbi sul dialetto nelle scuole: in proposito vi invito a leggere un suo interessante articolo (pubblicato su Il Sole 24 Ore), che ho trascritto qui.

E adès, av salut!


Ah, e se proprio volete sapere in quali panni mi sento più a mio agio quand a scor in dialèt, guardate qui

[tags] dialetto, tradizioni[/tags]

“Sorellanza” è anche tramandarsi una ricetta di stagione

Fino a quattro mesi fa quando avevo bisogno di qualche consiglio (o magari soltanto di una piccola consolazione), facevo un numero di telefono di Gatteo a Mare. E’ il luogo dove sono cresciuta, venti chilometri a nord da qui, appena al di là dello storico fiume Rubicone (il grande passaggio, in senso contrario a quanto fatto da Cesare, io l’ho vissuto nel 1983, col matrimonio).

Immancabilmente, a quel numero rispondeva la dolce voce della mamma.

“T’é voja ad tètta?” (hai voglia di tetta?), scherzava, immaginando che una richiesta del tipo “voglio fare la seppia con piselli, mà, cosa devo mettere giù prima, la seppia o i piselli?”, in realtà significasse “mamma, oggi sono un po’ in crisi e avevo voglia di sentirti”.

Ora quel telefono suona a vuoto.

Per fortuna, però, non sono figlia unica e la mamma ha lasciato in eredità i suoi tanti saperi alle mie due sorelle e a mio fratello, oltre che a me.

Teresa è la maggiore, ci separano dodici anni. Quand’ero bambina è stata una vice-mamma. Ora è il telefono di Teresa a squillare più spesso. Tutti la chiamiamo, quasi quotidianamente, per sapere… come si cucina la seppia con i piselli.

L’ultima volta che sono andata a trovarla mi ha regalato un barattolo di delizie: i fichi sciroppati come li faceva la mamma.

Ecco la ricetta, giusta per il mese che inizia oggi.

“Cogli l’attimo fuggente – direbbe qualcuno – E, per non perderne il sapore, conservane un po’ per i mesi più freddi”.

Magari si potesse fare così con tutte le cose buone (e belle)!

Fichi sciroppati di Teresa
Ingredienti
4 chili di fichi “tosti”, appena colti, col loro picciolo
1 chilo di zucchero
la buccia di un limone
Preparazione
In un pentolone antiaderente (vanno bene quelli di acciaio col fondo grosso) si mettono quattro chili di fichi interi col loro picciolo, precedentemente lavati e scolati, un chilo di zucchero e la buccia di un limone (la parte gialla) tagliata a striscioline o dadini.
Si lascia sul fuoco finché lo zucchero si è trasformato in sciroppo e i fichi cambiano colore e diventano marroncini.
Si mettono ancora caldi nei barattoli di vetro puliti, si chiudono e si lasciano raffreddare lentamente (anche due giorni) avvolti in panni o coperte.

Si mangiano anche dopo mesi.

A me piacciono insieme ai formaggi o sopra le cantarelle.

Buoni anche sulla piada calda, magari distesi sopra ad un leggero strato di stracchino fresco.

Io ho già l’acquolina in bocca? E voi?

Cicciopelatite e morbicella contro i costruttori riminesi

Come già detto in About me, una delle attività preferite di Maria Cristina giornalista è quella di trasformarsi in Regina Cristella (la miglior cura contro la malinconia). In tale veste invento favole e mi piace raccontarle ai bambini andando anche nelle scuole elementari, invitata dagli insegnanti.

La  propensione al raccontar storie – che non significa affatto che io creda sempre a quelle che mi raccontano gli altri, specialmente i politici, anzi! – deriva dall’età dell’adolescenza, quando facevo parte nel gruppo Scout di Gatteo a Mare, costola del mitico Cesena 3° di Edo Biasoli.

I miei lupetti, oggi adulti e vaccinati, probabilmente ricordano ancora le storie di Mowgli raccontate attorno ai falò, quando passavamo serate intere del campeggio in montagna a rivivere la vita del branco così come scritta da Kipling…
“Le fiabe – diceva la maestra Carla di Viserba ai suoi ragazzi presentando Cristella all’interno del progetto Psicantropos – aiutano a comprendere la realtà.”
A questo ho pensato quando ho ritrovato, nei file archiviati sotto il titolo “Progetti con le scuole riminesi”, un testo scritto a più mani nel 2001. Ero andata a conoscere i ragazzi della seconda B, alla scuola elementare Decio Raggi di via Matteotti. Entusiasti dell’opportunità  di conoscere personalmente Cristella (“Regina felice, perché diventata una vera scrittrice”), si lasciarono coinvolgere nel gioco delle parole libere. In una sorta di brain storming, vennero fuori mille spunti ed idee per un racconto. Gli ingredienti? Loro stessi protagonisti (cercando di nominarli tutti), la maestra, il maestro e la direttrice, la bidella, il vigile davanti alla scuola, il loro quartiere, i cattivi di turno…
Sono passati cinque anni, ma “Il nostro sogno colorato” è ancora attuale. Sarà perché si  parlava anche di costruire una fabbrica al posto del Parco Marecchia?

Niente paura: anche se non del tutto impossibile, con l’aria che tira a Rimini e dintorni, tale eventualità venne combattuta dai ragazzi della Seconda B, che fecero scappare i costruttori a colpi di morbicella e cicciopelatite!
Meditate, costruttori riminesi, meditate….