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Focarina, fogheraccia, fugaràza: sempre fuoco (e festa) è…

In tutta la Romagna, e Rimini non fa eccezione, in questo periodo cominciano a vedersi, qua e là, dei mucchi di sterpi e di legna che crescono in altezza di giorno in giorno.

Non solo in aperta campagna: basta uno spiazzo libero dai condomini, una piazza o un cortile di parrocchia. Va di moda, ma non era così fino a qualche anno fa, anche la spiaggia.

Cosa succede?

Come in un film di Fellini si sta preparando il set per una rappresentazione che si ripete da tempo immemorabile: la fogheraccia (o focheraccia) di san Giuseppe, in dialetto riminese “fugaràza”.

La sera del 18 marzo, appena dopo il tramonto, si comincia a sentire odor di fumo e a vedere numerosi fuochi che si accendono, non necessariamente con tempi sincronizzati: c’è chi consuma il rito appena dopo la cena, chi invece ne approfitta per trasformare il tutto in una sorta di barbecue alla romagnola, con salsicce, costine di maiale e l’immancabile sangiovese.

Qui a Viserba – e precisamente proprio davanti alla mia finestra, nello spazio ancora libero di cui scrivevo in un precedente post – viene allestita una fogheraccia che è diventata ormai storica: quella di Bruschi, che già due anni fa era data per spacciata per l’imminente costruzione di qualche palazzo (tanto per cambiare…).

L’annunciato “spegnimento”, però, è stato solo rimandato, visto che quest’anno si accenderà per davvero l’ultima “fogheraccia della falesia”: i lavori della nuova rotonda continuano infatti a pieno ritmo e il mucchio di legna da far ardere è lì, pronto. Più alto degli altri anni, a ricordare che questa volta è formato anche dai tronchi degli alberi che sono stati abbattuti per far posto alla strada e alle nuove costruzioni.

Comunque, la fugaràza è sempre un momento di gazòja (gioia e festa insieme) per grandi e per bambini.

Ricordo quando, a Gatteo a Mare, organizzati in una banda chiassosa andavamo in giro a raccogliere la legna con un carrettino, sotto la regia della “nonna” (quarant’anni fa la Pierina d’e’ Zaqual aveva poco più della mia età di oggi, ma era già “la nonna”, col fazzoletto in testa e la parananza sempre legata in vita).

Da quelle parti per indicare il falò di san Giuseppe si dice fugaréina (focarina), ma la sostanza non cambia: l’agitazione della preparazione, che durava settimane; l’emozione dell’accensione; la gioia nei volti illuminati e scaldati dal fuoco; la malinconia delle ultime scintille che sfuggono ai carboni che rimangono… E la mamma ci richiamava in casa, col fumo che rimaneva ad impregnare l’aria fino al giorno dopo, e anche oltre.

A quei tempi (quarant’anni fa) i fratelli Enrico e Ubaldo Branzanti, miei vicini di casa, scrissero una canzoncina che una mia amichetta cantò al “Festival di casa nostra” (io ero nel coro!).

Ricordo ancora il ritornello gioioso: “La focarina, la focarina, quanti musetti intorno a quel fuoco, coi goccioloni giù per il naso. La focarina, la focarina…”

Chi allora si troverà da queste parti per la prima volta proprio la sera del 18 marzo e sentirà rumore di botti e odore di fumo non abbia paura: non è scoppiata la guerra.

E’ “soltanto” una delle feste più antiche e sentite della Romagna.

La fugarena in piazza, a Castrocaro Terme FC

Fra le tante descrizioni dei falò di san Giuseppe, trascrivo qui di seguito quella del pluri-citato Gianni Quondamatteo (dal Dizionario Romagnolo Ragionato).

Fugaràza – gran fuoco, falò; focarone.

Alla vigilia di S. Giuseppe, la sera del 18 marzo (un po’ meno il 24 dello stesso mese, alla vigilia della Madonna), si accendono fuochi in tutta la Romagna; e si spara, e si fanno botti di ogni genere. L’ardore, da ragazzi, era tale, che qualche volta ci si dava al furto della legna, al saccheggio e perfino all’abbattimento di alberi. Dopo la fugaràza, dato fondo a tutta la legna, per la Madonna c’era la fugaréina.

G. Pecci: azzandrém anca st’ann al fugarein (accenderemo anche quest’anno le focarine).

Poiché di donna di scarso seno si dice che il falegname S. Giuseppe vi è passato con la pialla, ingraziarsi il santo vuol dire allontanare questo pericolo; di qui il curioso detto la fugaraza grosa la fa crès al tèti (la fogheraccia grossa fa crescere le tette); ergo, reca legna abbondante al falò.

In alcuni posti si dice (alla ragazza con poco seno): t’an è fat i fug ad san Jusèf, e san jusèf u t’a pas la piala (non hai fatto i fuochi a san Giuseppe, e san Giuseppe ti è passato sopra con la pialla).

Al fugarèn ad san Jusèf resistono in tutta la Romagna. Esse costituiscono certo un avanzo di costumi pagani e ne’ è da dimenticare che Marte era, nei tempi primitivi di Roma, il dio della campagna e della vegetazione. Pratella ritiene che con le “focarine” si volesse salutare il Dio Sole, identico, in tempi remoti, al dio Mavors (Marte), dio dell’anno (che cominciava appunto con il mese di marzo) e della primavera. Gaspare Bagli ricorda un bando di Carlo Malatesta, del 1379, che proibiva di festeggiare marzo con fuochi, perché risentivano degli usi pagani.

Un particolare significato, lo ricorda Ovidio, era il salto del falò da parte dei pastori, quando si celebravano in aprile le feste Palilie. E ancora oggi i giovani si cimentano saltando oltre le fiamme. All’inizio, invece, si forma un cerchio di bimbi, con le mani a catena, e una cantilena sale al cielo, facendo pensare ad una misteriosa invocazione alla luna: “Lòna, lòna ad mèrz, una spiga faza un bérc, un bérc e una barcheta, una gheba s’uva sèca, luna, luna di marzo, una spica produca una bica, una bica (mucchio di covoni di grano) e una bichetta, e una cesta d’uva secca.

Un webmaster da 30 e lode

Andare indietro col pensiero di ventidue anni…

Una signora non ancora ventottenne allatta la sua frugoletta nata alle otto del mattino all’Ospedale di Rimini.

Nel tardo pomeriggio di quel giorno c’era già il sole. Ma qualche ora prima, mentre Dora ed io eravamo impegnate nell’avventura più bella della nostra vita, fuori aveva iniziato a “sfruffolare” e in poco tempo la riviera era stata coperta da un sottile strato di neve.

Alla neomamma poco importava delle condizioni meteorologiche: tutta la sua attenzione era per Dora, la primogenita.

Dora appena nata, 28 febbraio 1986

Ne è passato, di tempo…

Quello di oggi, però, è un compleanno un po’ melanconico, causa lontananza.

La figlia, ormai cittadina europea a tutti gli effetti, ha trascorso la mattinata in volo, dalla Spagna a Ciampino, per poi fermarsi di nuovo a Roma, per gli studi all’Università di Tor Vergata.

E che può fare mamma per consolarsi della lontananza? Sfruttare il più possibile la collaborazione tecnica a distanza della piccola per il sito www.cristella.it, creato e gestito da questo preziosissimo webmaster personale!

Auguri da Rimini, webmaster romano. Ventidue anni con lode!

 


La Befana delle Befane

No, non è un gioco di parole. Domani pomeriggio, in occasione dell’estrazione dei biglietti della lotteria dello Ior (Istituto Oncologico Romagnolo), al Centro Commerciale ‘Le Befane‘ di Rimini, per intrattenere i più piccoli ci sarà una signora travestita da Befana.

Con la sua scopa di saggina, lo scialle di lana, il fazzolettone e la lunga sottana con le tasche colme di caramelle.

La sedia a dondolo la porteranno gli amici per farla riposare (dopo la nottata di lavoro, è indispensabile, eh…). Lei, invece, porterà con sé un cesto pieno di gomitoli di lana colorata, per fare con l’uncinetto le roselline che andranno a formare le coperte magiche, e una grande sporta con le storie che Cristella ha scritto in questi ultimi anni ogni 6 gennaio.

Eh, sì. Avete indovinato: à Riminì, la Befanà, c’est moi!

Non posso anticiparvi la storia che racconterò domani, perché i bambini che verranno alla festa devono essere i primi ad ascoltarla.
Posso solo svelare un particolare: questa volta Regina Cristella è stata aiutata dalla Duchessa Maristella, cioè la signora Marina, madre di Diego e Gabriel, che nella vita di tutti giorni è un’imprenditrice artigiana di Viserba.

Ah, se volete capire il senso del titolo di questo post, potete leggervi la favola che avevo scritto l’anno scorso.

La Befana delle Befane
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“Voglio trovare un senso a questa vita…”

Il leone che sa”, così viene chiamata Marilena Pesaresi, medico chirurgo riminese che da 44 anni opera in Africa dedicando la sua vita agli ultimi. Nel 2003 la dottoressa Pesaresi è stata eletta “Donna dell’anno” e un mese fa, a Roma, è diventata Commendatore della Repubblica Italiana. Quest’ultima notizia è passata in sordina. La dottoressa Pesaresi non ama la ribalta.

Pragmatica per forza, abituata alle emergenze quotidiane della sua missione, a Mutoko nello Zimbawe, sente il peso degli anni. “Sono stanca – ha detto recentemente – Sto pensando di ritirarmi, anche se lo faccio a malincuore, perché in Africa ho passato un periodo meraviglioso della mia vita.”

A 75 anni compiuti, di cui più della metà trascorsi nella sua Africa, “il leone che sa” pensa di non farcela più a seguire l’ospedale da lei fondato che oggi è un punto di riferimento per tutti i malati di cuore dello Zimbawe.

Quando, la scorsa settimana, ha presentato a Rimini i dati dell’Operazione cuore, Marilena ha detto: “Lottare per gli umili, abbattere tante barriere come ha fatto don Oreste Benzi, non significa fare della carità. Si tratta, semplicemente, di giustizia.”

Il progetto Operazione cuore da più di vent’anni consente ai malati assistiti dall’ospedale di Mutoko di potersi operare in Italia. In questi anni l’hanno già fatto 170 persone. Nel 2007 i bambini e i ragazzi operati a Rimini e Bologna grazie a Operazione cuore sono stati 13. Tutto questo grazie al filo diretto con Rimini, in primo luogo con la Diocesi e col fratello cardiologo Antonio Pesaresi. Fondamentale il sostegno della Regione, dell’Ausl e ultimamente anche del Ministero della Salute. Sono molte le famiglie riminesi che aprono la loro casa per ospitare i bambini che giungono in Italia per Operazione cuore e i loro accompagnatori.

Due anni fa ho conosciuto una ragazzina ricoverata a Rimini. Ero andata al Reparto di Pediatria con l’intenzione di far trascorrere qualche ora ai piccoli malati raccontando le favole di Cristella. L’impatto con la tristezza dei bambini è stato forte: c’era E., senza capelli per la chemio, che non aveva proprio voglia di sorridere, nonostante le insistenze della mamma e di questa sconosciuta signora che voleva raccontargli delle storie. C’era anche J., dall’età indefinita fra i 10 e i 14 anni, occhi e pelle nerissimi, accompagnata dalla nonna. La mamma era rimasta in Africa a badare al resto della famiglia. J., silenziosa, quasi adulta, coccolata e viziata da medici e infermiere. Più che dai libri, era attirata dalla televisione. Dopo due volte, non ce l’ho fatta più a tornare lì come raccontatrice di favole: quei bambini ne avrebbero potuto raccontare tante, a me, invece! Qualche mese dopo quella mia esperienza, proprio nel periodo di fine d’anno, ho letto su un manifesto appeso nel centro della città che J. non ce l’aveva fatta e che la silenziosa nonna era tornata a casa senza poterla portare con sé dalla sua mamma.

Si tratta di giustizia, non di carità.

Giustizia vuol dire anche che il Natale, come ci ha ricordato il nostro vescovo Francesco, non è solo il 25 dicembre di ogni anno, ma è tutti i giorni. Pensando all’Operazione cuore e a tutti coloro che vanno oltre al “buonismo in salsa dolce” di questo periodo, invito anche i lettori laici a meditare sul messaggio di Monsignor Lambiasi pubblicato sul settimanale Il Ponte. Il Vescovo cita Shakespeare – “Se il Natale non è, io non sono” – ma anche due cantautori contemporanei. Il primo, Vasco Rossi – “voglio trovare un senso a questa vita, anche se un senso non ce l’ha” – per smentirlo: la vita un senso ce l’ha, eccome.

L’altro, invece, spiega il Vescovo, è per ricordare che Natale è tutti i giorni.

“Un messaggio che qualche anno fa Luca Carboni ha inserito in una sua canzone: o è Natale tutti i giorni, o non è Natale mai. E’ interessante che i Vangeli non ci riportino la data precisa del Natale, il giorno e il mese preciso. Ci danno qualche indicazione di massima per l’anno, ma per quanto riguarda il giorno e il mese non c’è nulla. E i primi cristiani hanno scelto il 25 dicembre perché si faceva la festa pagana al Sole Invincibile, perché era appunto la festa del dio Sole. I cristiani hanno scelto quel giorno, ma questa è una cosa proprio bella perché sta a dire che ogni giorno può e deve essere Natale. E allora – conclude il Vescovo – mi sento appunto di augurare con le parole di Luca Carboni che sia Natale tutti i giorni, perché allora il 25 dicembre noi lo celebriamo appunto non perché sia Natale solo in quelle 24 ore ma perché sia Natale anche il 26, 27, 28 dicembre e così via”.

Buon Natale a tutti!

Chi non canta con Lady Oscar, invidia lo colga!

In una calda sera di luglio, la scorsa estate, mi sono ritrovata a cantare insieme ad altri “luloni” come me le canzoni delle sigle dei cartoon che andavano in televisione una trentina d’anni fa. 

Era alle Celle, per la tradizionale festa per i bambini riminesi organizzata dalla Banca del Tempo del Quartiere 5. 

Quando hanno iniziato a suonare i musicisti invitati per quella sera, i ragazzini si sono subito seduti di fronte al palco, con le mani ancora impiastricciate dallo zucchero filato, mentre i genitori si posizionavano intorno, un po’ all’ombra. Tutti incuriositi per quei personaggi in costume, truccati e imparruccati come gli eroi della Tv, che con chitarre e tastiere si preparavano ad animare la festa. Dopo un paio di canzoni non si capiva chi, tra piccoli e grandi, stava divertendosi di più.  Avete presente gente dai quarant’anni in su segnare il tempo coi piedi e con le mani cantando a memoria la canzone di Ufo Robot? 

                                                    Si trasforma in un razzo missile, 

con circuiti di mille valvole, 

tra le stelle sprinta e va! 

Ufo Robot! Ufo Robot!

Avete presente Capitan Harlock? E’ Marco, chitarrista e cantante. E Tigerman? E’ Paolo, cantante e leader della band. Dentro la tuta rossoblu di Spiderman c’è Piersante, tastierista e vocalist. Il giustiziere Zorro, anche se mascherato, l’ho riconosciuto: è il chitarrista viserbese William. Sotto la chioma bionda di Lady Oscar, sorride Helga, brava cantante e moglie, mi pare, di Capitan Harlock. Goku è Stefano, il percussionista. Al basso elettrico c’è Carlo, che con un berretto in testa si trasforma in Carletto, il principe dei mostri. 

Finalmente, in quella bella serata, ho capito cosa fosse una Cartoon Cosplay Band.

L’ho imparato conoscendo dal vivo la Flotta di Vega (che “ha la sua astronave madre parcheggiata a Rimini”, come viene specificato nel sito con blog incorporato).  I componenti della Flotta di Vega sono degli adulti seri e rispettabili (almeno così sembra…) che uniscono la passione per la musica con quella per i cartoni animati e per le serie Tv che hanno amato da giovani. Operai, impiegati, padri (e madri) di famiglia.

Hanno partecipato al Cartoon Club, manifestazione che si organizza a Rimini da diversi anni, e ultimamente al Lucca Comics, altro evento clou per fumettomani & co. Ogni volta suscitando curiosità e meritando applasi. 

Li potete vedere e ascoltare qui. Se vi vergognate a chiamarli per animare le vostre, di feste, potete far credere che li volete per i bambini del quartiere o della parrocchia. O per il compleanno dei vostri figli, perché no. L’importante è che non dimentichiate di invitare anche genitori e zii: ve ne saranno grati, perché saranno quelli che apprezzeranno di più! 

A me piacciono perché: sono di Rimini, sono bravi cantanti e strumentisti, mi fanno ricordare l’adolescenza, fanno divertire i bambini ma anche i genitori e i nonni, si esibiscono rigorosamente dal vivo e a scopi benefici. 

Mi sono simpatici anche perché quando ci sono loro realizzo di non essere l’unica “lulona” che ogni tanto sa gioire, nonostante il grigiore e i problemi della quotidianità adulta. 

Visto che ci sono, vi segnalo anche Memoria bambina, un interessante sito (che mi ha fatto conoscere la mia amica blogger Marina Garaventa, la Principessa sul Pisello) che raccoglie le canzoni delle sigle Tv, dei telefilm, delle pubblicità che hanno fatto parte della nostra vita: da Orzowei a Donna Rosa, da Happy Days a Furia cavallo del west… 

E chi non ride e canta con noi, rabbia (e invidia) lo colga!