(Federico Fellini, tratto da La mia Rimini, Cappelli, Bologna, 1967)
Esterno notte.
Sera d‘estate a Rimini. Terrazza del Grand Hotel. La facciata dell’albergo è illuminata a giorno. Musica di sottofondo affidata alla magica voce di una bella ragazza mora seduta al pianoforte. Numerosi ospiti in abito da sera ai grandi tavoli rotondi. Via-vai di camerieri in giacca bianca.
E’ il 13 luglio 2008.
Paolo ed io siamo fra gli invitati al Gran Galà dello Ior, l’Istituto Oncologico Romagnolo, di cui siamo volontari da diversi anni.
Non siamo ospiti di primaria importanza, ma ‘gregari’. Forse per questo il tavolo riservato a noi e ai nostri amici è ai bordi della terrazza, l’ultimo della fila.
Per fortuna, penso ora.
Da quella postazione non ho mancato di ammirare gli ospiti ‘veri’ del Grand Hotel: i clienti residenti che stavano cenando nella sala da pranzo le cui vetrate erano lì, a portata dei miei sguardi curiosi.
Non vi dico l’eleganza di signore e signori! Molti evidentemente erano stranieri. Li osservavo quando, di tanto in tanto, si alzavano per recarsi al bar o per uscire ad ascoltare il “nostro” concerto.
La mia attenzione, a un certo punto, è stata attirata da un bimbetto sui sette anni che aveva in mano un video-gioco (o forse era una pallina verde?). Biondo, capelli lisci e lunghi fino alle spalle, calzava un enorme cappello da marinaio e vestiva alla marinara.
Mi dispiace solo di non aver avuto la prontezza di fotografarlo. Quindi, pur non essendo brava a disegnare, ho provato a fissarlo su carta con penna e pastelli.
Eccolo.
I genitori, giovani e biondi pure loro, magri e belli, potevano essere inglesi o russi. Comunque stranieri.
La visione di questo bambino mi ha colpito perché avevo appena letto, sulle pagine di un quotidiano locale, un articolo di Gianfranco Angelucci, ai tempi stretto collaboratore di Federico Fellini, che racconta la cronaca del 3 agosto 1993, quando il Maestro venne colpito da un ictus mentre si trovava qui, al Grand Hotel.
“Quel giorno – raccontava il regista – fui salvato da un angelo vestito da marinaretto”.
La figura del marinaretto ritorna spesso nella vita, reale e onirica, di Fellini.
“Qualche volta mi capitano sotto gli occhi delle fotografie dove ci sono anch’io, col vestito da marinaretto, ritto in piedi con mio fratello, dietro a mio padre e mia madre seduti su due poltroncine di velluto; lo ricordo perché abbiamo dovuto portarle da casa fino allo studio del fotografo, socialista e sorvegliato dal Questore”.
E in quasi tutti i suoi film il marinaretto appare, anche solo fugacemente.
Un sogno divenuto ossessione, forse. O il contrario…
In quel caldo martedì d’agosto di quindici anni fa, dicevamo, quando l’ictus colpì il regista alloggiato nel “suo” Grand Hotel, si disse che l’allarme venne dato da un piccolo ospite straniero vestito da marinaretto. Il bambino, sentendo i lamenti provenienti dalla stanza 316, aprì la porta, trovò il maestro riverso sul pavimento e corse a chiamare aiuto.
Ma in quei giorni nessun bambino con quelle caratteristiche alloggiava al Grand Hotel.
Realtà o sogno? Solo Federico potrebbe dirlo.
Sempre l’estate scorsa, a Bellaria, ho avuto l’occasione di incontrare Sergio Zavoli, il grande giornalista amico di sempre di Fellini. Gli ho chiesto se avesse mai sentito parlare di questa versione dei fatti. Un sorriso malinconico ha accompagnato la sua risposta.
“No, cara. Non è andata proprio così. Ma stai certa che Angelucci l’ha saputo dal diretto interessato: una delle tante ‘storie vere’ raccontate dal fantasioso Federico.”
Mi sono divertita a scrivere un raccontino su questa strana coincidenza. Eccolo.