Rimini: il mare d’inverno e i soldatini in fila

“…Pensare a Rimini. Rimini: una parola fatta di aste, di soldatini in fila. Non riesco a oggettivare. Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare. Lì la nostalgia si fa più limpida, specie il mare d’inverno, le creste bianche, il gran vento, come l’ho visto la prima volta.”

(Federico Fellini, tratto da La mia Rimini, Cappelli, Bologna, 1967)

il molo di Rimini in un giorno di burrasca. dicembre 2008

Esterno notte.

Sera d‘estate a Rimini. Terrazza del Grand Hotel. La facciata dell’albergo è illuminata a giorno. Musica di sottofondo affidata alla magica voce di una bella ragazza mora seduta al pianoforte. Numerosi ospiti in abito da sera ai grandi tavoli rotondi. Via-vai di camerieri in giacca bianca.

E’ il 13 luglio 2008.
Paolo ed io siamo fra gli invitati al Gran Galà dello Ior, l’Istituto Oncologico Romagnolo, di cui siamo volontari da diversi anni.
Non siamo ospiti di primaria importanza, ma ‘gregari’. Forse per questo il tavolo riservato a noi e ai nostri amici è ai bordi della terrazza, l’ultimo della fila.

Per fortuna, penso ora.

Da quella postazione non ho mancato di ammirare gli ospiti ‘veri’ del Grand Hotel: i clienti residenti che stavano cenando nella sala da pranzo le cui vetrate erano lì, a portata dei miei sguardi curiosi.

Non vi dico l’eleganza di signore e signori! Molti evidentemente erano stranieri. Li osservavo quando, di tanto in tanto, si alzavano per recarsi al bar o per uscire ad ascoltare il “nostro” concerto.

La mia attenzione, a un certo punto, è stata attirata da un bimbetto sui sette anni che aveva in mano un video-gioco (o forse era una pallina verde?). Biondo, capelli lisci e lunghi fino alle spalle, calzava un enorme cappello da marinaio e vestiva alla marinara.

Mi dispiace solo di non aver avuto la prontezza di fotografarlo. Quindi, pur non essendo brava a disegnare, ho provato a fissarlo su carta con penna e pastelli.
Eccolo.

il marinaretto al Grand Hotel di Rimini

I genitori, giovani e biondi pure loro, magri e belli, potevano essere inglesi o russi. Comunque stranieri.

La visione di questo bambino mi ha colpito perché avevo appena letto, sulle pagine di un quotidiano locale, un articolo di Gianfranco Angelucci, ai tempi stretto collaboratore di Federico Fellini, che racconta la cronaca del 3 agosto 1993, quando il Maestro venne colpito da un ictus mentre si trovava qui, al Grand Hotel.

“Quel giorno – raccontava il regista – fui salvato da un angelo vestito da marinaretto”.

La figura del marinaretto ritorna spesso nella vita, reale e onirica, di Fellini.

Qualche volta mi capitano sotto gli occhi delle fotografie dove ci sono anch’io, col vestito da marinaretto, ritto in piedi con mio fratello, dietro a mio padre e mia madre seduti su due poltroncine di velluto; lo ricordo perché abbiamo dovuto portarle da casa fino allo studio del fotografo, socialista e sorvegliato dal Questore”.

E in quasi tutti i suoi film il marinaretto appare, anche solo fugacemente.

Un sogno divenuto ossessione, forse. O il contrario…

In quel caldo martedì d’agosto di quindici anni fa, dicevamo, quando l’ictus colpì il regista alloggiato nel “suo” Grand Hotel, si disse che l’allarme venne dato da un piccolo ospite straniero vestito da marinaretto. Il bambino, sentendo i lamenti provenienti dalla stanza 316, aprì la porta, trovò il maestro riverso sul pavimento e corse a chiamare aiuto.
Ma in quei giorni nessun bambino con quelle caratteristiche alloggiava al Grand Hotel.

Realtà o sogno? Solo Federico potrebbe dirlo.

Sempre l’estate scorsa, a Bellaria, ho avuto l’occasione di incontrare Sergio Zavoli, il grande giornalista amico di sempre di Fellini. Gli ho chiesto se avesse mai sentito parlare di questa versione dei fatti. Un sorriso malinconico ha accompagnato la sua risposta.
“No, cara. Non è andata proprio così. Ma stai certa che Angelucci l’ha saputo dal diretto interessato: una delle tante ‘storie vere’ raccontate dal fantasioso Federico.”

Mi sono divertita a scrivere un raccontino su questa strana coincidenza. Eccolo.


La pallina verde del marinaretto

Nel corridoio del terzo piano la moquette rossa attutiva il rumore dei passi dei clienti e del personale.
La penombra dell’ambiente, in quell’afoso pomeriggio d’agosto, suggeriva un’idea di fresco, che però non corrispondeva del tutto alla sensazione reale.
Era l’ora della pennichella.
Limpio, il facchino addetto al piano, lavorava al Grand Hotel da quasi quindici anni. Non solo valigie da portare su e giù, ma anche lavori di piccola manutenzione, che in un albergo come questo non mancavano mai. Un rubinetto che sgocciola? Un interruttore bloccato? Una lampadina da sostituire?
“Me la cavo un po’ con tutto – stava spiegando Limpio all’Eleonora, la cameriera brunetta intenta a sistemare il materiale della guardiola riservata al personale del piano – I miei capelli grigi la dicono lunga: da giovane ho fatto il muratore, l’imbianchino, l’idraulico, il fabbro, l’autista, il cuoco… Chiamami pure, quando trovi qualcosa che non funziona. C’è un problema? Arriva Limpio, che tutto sistema!”
Soddisfatto della rima e dell’espressione di rispetto apparsa sul volto della donna, il facchino decise di riposare un po’. Tra l’altro, sedendosi al tavolino poteva sbirciare meglio le forme esuberanti della collega, a malapena contenute nella divisa bianca e rosa.
L’uomo buttò l’occhio all’orologio da polso.
“Sono solo le tre e un quarto – sbuffò tra sé e sé – Sa ste chèld, us starébb mej a marèina (con questo caldo, si starebbe meglio in riva al mare).”
E, piegando la testa sul tavolino, quasi senza accorgersene, si appisolò…

“Ma dai, non dirmi che ti disturbo, che non ti credo! Non sono mica le tre di notte!”
Il Maestro era in canottiera. Con la schiena appoggiata a due cuscini parlava al telefono, steso sul letto della stanza 316. Il salottino e la camera della suite erano in penombra. Dalle porte-finestra che si affacciavano sul grande parco giungevano pochi rumori: a Rimini anche le automobili e i motorini a quell’ora vanno a riposare.
Le persiane accostate lasciavano filtrare un sottile raggio di sole che, come una stilettata, andava a toccare la mano destra del maestro. L’indice piegato seguiva le curve dei ghirigori del copriletto damascato, quasi a volerli ridisegnare con un gessetto invisibile.
Sul tavolino accanto al letto, in fila come tanti soldatini, i flaconi e le scatole delle medicine: l’anticoagulante, la compressa per la pressione, l’antibiotico…
“Sì, sì, che sto bene, Gianna, sta’ tranquilla – continuava il Maestro – Lo sai che qui sono come a casa, no? Dormo, leggo, telefono, vedo gli amici. Giulietta è tornata a Roma questa mattina, sarà quasi arrivata, ormai. A pranzo sono stato dalla Maddalena. Questa sera, invece, viene a prendermi il Grosso: andiamo all’Osteria del Borgo, vicino al Ponte di Tiberio. Fanno dei galletti in umido da leccarsi le dita! Ora provo a dormire un po’: stanotte l’ho fatta quasi tutta in bianco, non riuscivo a prender sonno. La fatica più grande è star dietro a tutte queste medicine! Una la mattina, l’altra prima di pranzo, un’altra ancora alle quattro spaccate… Insomma, un s’capéss pròpri gnint, non si capisce proprio niente! Pensa che per organizzare questa specie di farmacia che mi ritrovo in camera, ieri ho dovuto chiedere a Limpio di spatacare con legno e chiodi per modificare il tavolino. Adesso ho tutto qui, a portata di mano. Va bene, Gianna, ci sentiamo domani. Mi telefoni tu? Ciao, bella.”
Il Maestro piegò il busto e allungò il braccio per riattaccare la cornetta del telefono.
Ma, che strano, non si ricordava che il tavolino fosse così lontano dal letto. Qualcuno l’aveva spostato? Un’ombra nera gli passò davanti agli occhi. Poi, improvvisamente, un lampo.
“Che succede? Cos’è questo silenzio improvviso?”
Ad un tratto, una sensazione mai provata prima.
Su e giù… Come sbattuto da un uragano improvviso… Di qua, di là… La testa gira, gira… La mano si apre, la cornetta cade a terra, sbatte sulla moquette senza far rumore…
“Oddio, sto male. Cosa mi succede? Devo chiamare qualcuno! Il telefono… Gianna, Gianna, hai già chiuso? Aiuto, aiutatemi. Help, help me!”
Tum- tum-tutum…
“Ma cos’è questo rumore soffocato nel corridoio? Sembra una palla che rimbalza… Qualcuno che viene a salvarmi?”
Tum-tum-tutum…
Uno spiraglio di luce inonda la stanza.
La porta si apre quel tanto per far entrare un bambino sui sette anni vestito da marinaretto. Il cappello blu con la visiera, troppo grande per lui, gli copre le orecchie e lo rende molto buffo. Biondi e lisci come quelli di una bambola, i capelli gli arrivano alle spalle. Indossa una maglietta a righe e larghi pantaloni bianchi che arrivano al polpaccio.
Nelle mani tiene una pallina verde. Quella del tum-tum-tutum.
Il bambino guarda il vecchio caduto dal letto, senza capire le sue parole.
“Aiut… Chiama qualc…”
Poi, finalmente, una parola conosciuta.
Help me!”
Il marinaretto biondo corre nel corridoio.
E’ ormai grande, lui! Ha capito che quel signore sta male ed ha bisogno di aiuto.
Si ricorda di aver visto il facchino e la cameriera, sullo stesso piano, e di esser sgattaiolato via per paura che lo rimproverassero. Mamy si era raccomandata di non fare rumore con la palla, che quello era un albergo di lusso e bisognava portare rispetto agli altri ospiti. “Be quiet, baby!”

Limpio sentì un venticello che gli spettinò i capelli brizzolati e si svegliò di colpo dal torpore della pennichella. Il silenzio era stato interrotto da un leggero rumore, un tum-tum-tutum mai sentito prima.
“C’è corrente. Che strano. Qualche porta rimasta aperta? Meglio dare un’occhiata.”
L’Eleonora, intanto stava spolverando lo specchio al lato opposto del corridoio.
Limpio si alzò per andare a fare il suo giro di controllo.
E subito si accorse di qualcosa di diverso: la porta della stanza 316 era socchiusa e a terra, proprio lì davanti, c’era una pallina verde non ancora ferma del tutto, come se qualcuno avesse appena finito di farla rimbalzare.
Non sapeva cosa pensare, Limpio, ma decise la sola cosa da fare: correre, correre il più velocemente possibile a vedere cosa succedeva. Guai, se a causa della sua distrazione qualche malintenzionato si fosse introdotto nelle stanze degli ospiti! Tanto più in quella del grande regista Federico Fellini, convalescente da un intervento chirurgico, che da qualche giorno alloggiava lì.
“Eleonora, vieni anche tu! Dev’essere successo qualcosa alla 316!”, chiamò mentre si dirigeva verso la stanza del Maestro.

La mezzora che seguì rimase fissata per sempre nella memoria di Limpio e di Eleonora e nei giorni seguenti riempì le pagine dei giornali di tutto il mondo.
“Fellini, brivido a Rimini nel suo Grand Hotel”, titolava il Corriere della Sera del 4 agosto 1993.
“Parla ed è cosciente. Da poco era stato operato al cuore in gran segreto a Zurigo. Il maestro, convalescente dopo l’applicazione di un bypass, era solo in camera quando ha perso i sensi. Soccorso da una cameriera e da un facchino. La moglie è tornata subito da Roma. Fellini si è sentito male nella sua camera d’albergo, verso le 15.30. Era solo e un improvviso svenimento l’ha fatto cadere battendo la testa. Una cameriera e un facchino che passavano per il corridoio hanno sentito qualcosa, sono entrati nella stanza e hanno dato l’allarme.”

Fellini morì a Roma il 31 ottobre 1993.

E’ stato sepolto nel cimitero di Rimini, subito dopo l’ingresso, nei pressi della zona monumentale e antica.

In una delle vecchissime tombe dai decori scrostati che circondano l’ultima dimora di Federico, di Giulietta e di Federichino, è sepolto un bimbo dal nome straniero morto “in circostanze drammatiche”, all’età di sette anni, nel lontano 1908, mentre coi genitori era in vacanza a Rimini.
La fotografia è appannata e confusa: un grande berretto blu copre a malapena i suoi lunghi capelli biondi.
Il bimbo della fotografia sorride ammiccante, con lo sguardo rivolto alla scultura dell’artista Arnaldo Pomodoro posta sulla tomba dei Fellini.
Al bambino quella prua di nave ricorda le onde, il vestito da marinaretto, la sua pallina verde.
La stessa che aveva trovato sulla spiaggia il giorno dell’incidente, quando con mamy e daddy era fra i primi ospiti del Grand Hotel appena inaugurato.
Lo ricorda benissimo: erano alloggiati nella stanza 316, al terzo piano.

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