In anteprima per i lettori di Cristella: favola Befana 2009

Domani pomeriggio, dalle 15 in poi, Cristella sarà impegnata – come negli anni passati – a fare la Befana per lo Ior, l’Istituto Oncologico Romagnolo. La location non è più la meravigliosa piazza Cavour come le prime volte, ma una “piazza” del Centro Commerciale Le Befane, luogo che, nonostante sia al coperto e al calduccio, Cristella ritiene molto più freddo. La regina favolista cercherà di scaldare l’ambiente con le sue favole e con le caramelle che riempiranno le tasche della sua “sottana alla romana”.
Cristella-Befana
Cristella-Befana
La favola scritta per l’occasione (ieri e l’altro ieri Cristella è rimasta impegnata al computer e stamattina ha fatto le prove di racconto ad alta voce) si intitola “Quanti anni ha la Befana?” e vuole essere la risposta a quella bimbetta che l’anno scorso, guardando il viso paffuto di Cristella, le disse: “Io non ci credo che te hai trecento anni, non sei neanche sdentata!”
Beh, cara bimba, anche la Befana è un po’ magica, no?
Ecco la favola.
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Là dove c’era il verde ora c’è…

Una delle cose che affascinano e appassionano Cristella è la ricerca storica, anche recente, sui luoghi in cui vive o ha vissuto.

Libri, riviste, singoli articoli, conferenze: se può, non se li lascia sfuggire. Da quando c’è internet che arriva in casa, poi, questo strumento invita a navigare in lungo e largo per approfondire la conoscenza del territorio. E allora, via con la fantasia: le mappe dal satellite più di una volta le hanno fatto passare ore a viaggiare senza muoversi dalla sedia.

In una di queste esplorazioni Cristella si è imbattuta in tre bellissime fotografie aeree della zona di Viserba, Rivabella, Celle, San Giuliano di Rimini riprese in tre epoche diverse: 1943, 1982, 2005.
Pasticciando con lo zoom si riesce anche a vedere i particolari più dettagliati.

foto aerea 1943

foto aerea 1982
foto aerea 2005

Quante cose sono cambiate nell’arco di 62 anni!

La reggia di Cristella nel 1943 ancora non c’era, ma il luogo ove sorge è riconoscibile poiché confinante col parco di Villa Ombrosa: sulla sinistra dell’immagine, a metà altezza fra il litorale e la via consolare Popilia (oggi Strada Statale Adriatica) di cui si vede un tratto in basso.

Sul territorio di questa fetta di Rimini Nord, allora occupato prevalentemente da orti e campi coltivati, oggi ci sono case, condomini, insediamenti produttivi, nuove strade, rotonde… Da non dimenticare che molto è stato edificato dopo il 2005. Quindi nell’ultima foto, almeno per quanto riguarda Viserba, manca ancora buona parte del Peep e del Centro Studi.
Un’ultima riflessione (è il caso di dirlo!) riguarda l’espansione del cimitero. E’ in basso, all’incirca alla metà delle immagini. Il Cimitero si allarga, si allarga… Lo spazio non basta mai.

Tra l’altro, dalla foto del 1943 si nota come, a quei tempi, l’unico accesso al Cimitero fosse quello sbarrato dal passaggio a livello della linea ferroviaria Rimini-Bologna. Due particolari (il passaggio a livello e l’incessante espandersi dell’edificazione del cimitero) descritti anche da Federico Fellini. Ecco due ricordi del regista.

Il primo è tratto da “La mia Rimini”, il secondo da un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Continua a leggere

Buon anno, buon anno! Felicità per tutto l’anno!

Tutti presi dai preparativi per il cenone e le danze del veglione di san Silvestro, i giovani non conoscono le numerose credenze e tradizioni legate al Capodanno, che sono però nella memoria di genitori e nonni.

Un esempio? Una volta si stava molto attenti agli incontri del primo di gennaio: donne e preti portavano male, così come i mendicanti, che preannunciavano miseria per tutto l’anno.

E proprio per prevenire ed esorcizzare questi incontri sgraditi, fino a qualche decennio fa era abitudine andare di casa in casa a “cantare il buon anno” (un po’ come succedeva la notte dell’Epifania coi gruppi della Pasquella). Sul far dell’alba del primo di gennaio bambini e ragazzi (rigorosamente maschi!) giravano per il vicinato bussando a tutte le porte.

Si annunciavano gridando a squarciagola il loro augurio per l’anno appena iniziato:

“Buon anno, buon anno! Felicità per tutto l’anno!”

Oppure, se erano in campagna:

Bon dé, bon an, bòna furtòna,
int la stala, int e’ stalèt, int la bisaca de curpèt

(buon dì, buon anno, buona fortuna, nella stalla,
nello stalletto, nella tasca del corpetto).

I padroni di casa li accoglievano offrendo dolci e qualche spicciolo. I primi servivano a riempire le pance, le monete andavano a formare il gruzzoletto che al mattino sarebbe stato diviso in parti uguali.

Erano anche vendicativi, questi ragazzi! Se in cambio del loro augurio non ricevevano alcunché, infatti, si allontanavano gridando:

Bon dé, bon an, ch’uv mura la sumara int e’ capàn!”
(buon dì, buon anno, che vi muoia la somara nel capanno!).

In ogni caso, le donne evitavano di andare a casa di qualcuno il primo di gennaio perché avrebbero portato disgrazia. Quindi, per prevenire un cattivo inizio dell’anno che avrebbe avuto ripercussioni malefiche su tutto il suo corso, non sarebbero state accolte.

Gli allegri gruppi del “buon anno” sopravvivono forse solo in qualche piccolo paese della Romagna e nei ricordi di chi oggi non è più bambino. I ragazzi moderni hanno perso questa tradizione. In compenso hanno fatto propria quella di paesi lontani, che comunque ci riporta a casa: “dolcetto o scherzetto” di Halloween non è forse la versione anglosassone dello stesso gioco di ruolo romagnolo?

Come dire: tutto il mondo è paese.

Al pisghéini di Tiziana: il regalo di Natale più gradito

Hmmmm, al pisghéini! Un vero trionfo dei sensi.

In Romagna non ci sono molti dolci tradizionali come in altre regioni: ciambella, zuppa inglese, i dolci di carnevale… Le pesche dolci che propongo oggi sono, in un certo senso, una variante della zuppa inglese, visto che gli ingredienti e i colori sono pressoché gli stessi.

Al pisghéini sono il dolce preferito di quasi tutti i familiari di Cristella. Perché? C’è bisogno di dirlo? Erano la specialità di mamma Pierina, che le preparava per Capodanno e per l’Epifania. In ambedue le occasioni, oltre che alla propria famiglia, le peschine venivano offerte ai visitatori notturni (“dolcetto o scherzetto” di Halloween non è un’invenzione anglosassone), cioè ai gruppi di bambini, ragazzi e uomini (rigorosamente maschi) che andavano di casa in casa ad augurare “buon anno buon anno felicità per tutto l’anno” e a “cantare la Pasquella”.

Pronte da mangiare

In casa di Cristella bambina già verso Natale si dava il via alla preparazione tenendo da parte i mezzi gusci delle noci che si mangiavano per le feste, stando bene attenti a non romperli. Ne sarebbero serviti molti, da utilizzare come formine per le mezze pesche di pasta frolla. Ma, bando alle ciance. Ecco di seguito la ricetta completa delle peschine dolci romagnole, nella versione di Tiziana, la sorella di Cesenatico. E’ il regalo di Natale che ci ha fatto quest’anno: un tuffo nei sapori dell’infanzia, per la gioia di Cristella, Domenico e Teresa. Continua a leggere

Anche quest’anno, il rito dei cappelletti

Non sarò originale, ma in questa giornata di vigilia sono stata indaffarata, come penso la maggior parte delle donne italiane, nei preparativi culinari per il Natale. Quindi, mi vorrete scusare se, semplicemente, copio-incollo quanto scritto un anno fa. Il rito dei cappelletti s’è ripetuto anche oggi pomeriggio. Tale e quale. Come chissà quante volte in passato…

Buon Natale dalla Romagna!

“Mi siedo al computer solo ora, dopo un pomeriggio in cucina. (…)
Quello della preparazione dei cappelletti è un rito “nostro”. Sì, perché per tradizione si tratta di un lavoro collettivo: la suocera, la nuora (cioè la sottoscritta) e la nipote mezzo-romana che ha nostalgie culinarie romagnole. Un pomeriggio intero a tirare la sfoglia, tagliarla in quadratini, riempirla col “composto”, richiuderla e formare file ordinate di cappelletti sui vassoi infarinati.

Calcolandone una ventina a testa e tenendo presente che a tavola saremo undici, abbiamo preparato la bellezza di 300 cappelletti… Si sa come vanno queste cose: meglio stare abbondanti!

E’ tradizione, in Romagna, che la vigilia di Natale la famiglia si ritrovi per preparare questo tipo di pasta. Ognuno fa qualcosa. E, come succede sempre con le preparazioni tipiche, le ricette, seppur simili, sono differenti da famiglia in famiglia. Quelli che abbiamo preparati oggi, ad esempio, sono i cappelletti della Romagna del sud, col ripieno di carne macinata e formaggio grattugiato, più somiglianti ai tortellini bolognesi.

Quelli della mia infanzia, invece, sono più tipici della zona di Cesena e del Rubicone: più morbidi, col ripieno di formaggi, a cui si aggiunge solo una piccola parte di carne (solitamente petto di cappone). Sono i cappelletti della mia mamma, che li faceva seguendo la ricetta di Pellegrino Artusi.

Il mio “Buon Natale” ai lettori passa quindi attraverso questo piatto della tradizione, così come lo racconta il gastronomo di Forlimpopoli.
Peccato che attraverso Internet non si possano ancora inviare profumi e sapori. Chissà, forse in un futuro neanche tanto lontano questo sarà possibile… Intanto, godetevi la lettura in “stile Artusi”.
cappelletti
Da “La Scienza in Cucina e l’Arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi

Ricetta n. 7 – CAPPELLETTI ALL’USO DI ROMAGNA
Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco.
Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180.
Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta.
Parmigiano grattato, grammi 30.
Uova, uno intero e un rosso.
Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace.
Un pizzico di sale.
Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera.
Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato. Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito.
Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine.