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Tot i bec i va a la fira

Attenzione, mogli e mariti in odor di tradimento, a passare dalle parti di Santarcangelo, vicino a Rimini, tra oggi e l’undici novembre.
O, meglio, ci si può andare, anche perché la cittadina è animata dalla Fiera di San Martino, una delle sagre più antiche della Romagna (qui si può leggere il programma), ma è consigliabile non passare sotto l’Arco Ganganelli, nell’omonima piazza.
Lorenzo Ganganelli, santarcangiolese, venne eletto al Soglio Pontificio col nome di Clemente XIV e passò alla storia per avere soppresso, nel 1773, i Gesuiti e per aver proibito l’evirazione dei ‘castrati’ destinati al Coro della Cappella Sistina come ‘voci bianche’ (guadagnandosi così l’appellativo di Defensor Castrati).
Nella luce del grande arco che la città gli dedicò, ogni anno, per San Martino, viene appeso un paio di corna immense, adornate con le grandi nappe rosse e blu che i contadini usavano contro i sortilegi. Chi, uomo o donna, passando sotto a tali corna dovesse farle oscillare anche solo leggermente, sarà indicato come “becco” ed esposto a pubblica derisione.
Una consolazione per i romagnoli: quella di Santarcangelo non è la sola Fira di bec (Fiera dei becchi) d’Italia, perché evidentemente si tratta di una razza non estinta e presente ad ogni latitutudine. A tal propostito, rimando alla lettura di un simpatico post dell’enciclopedia fatta donna, la blogger genovese Placida Signora.
Per San Martino la notte era ritenuta magica anche perché posta a quaranta giorni dal solstizio d’inverno. Ancora all’inizio di questo nostro secolo in alcune località della Romagna i mariti traditi, venivano chiamati fuori di casa a gran voce da turbe di ragazzacci che suonavano corni o battevano coi sassi su bidoni e lamiere.

Per schernirli ancor di più, si gridava, a mò di filastrocca:

E de’ d’San Martén
tot i bec i va a la fira,
dundèla, dundèla, dundon.
E chi cl’è bec l’è bec,
e chi cl’è bec e’ va a la fira,
dundèla, dundèla, dundon.
E visto che tutte le feste finiscono affogate nel buon vino, anche a Santarcangelo non si scherza: in caso di oscillazione delle corna, i becchi possono consolarsi con qualche bicchiere di ottimo San Giovese, forse anche più amato di San Martino.

Tonino, tatarcord c’la volta?

L’attesa

(dalla raccolta “Il Polverone”)

Era così innamorato che si chiuse in casa

e sedette vicino alla porta

per poterla abbracciare subito

appena avesse suonato per dirgli che lo riamava.

Ma lei non suonò e lui diventò vecchio.

Un giorno qualcuno bussò leggermente alla porta

e lui ebbe paura

e fuggì a nascondersi dietro l’armadio.

L’attesa è opera di Tonino Guerra, il noto poeta e sceneggiatore romagnolo.

Più che Amarcord il film di Fellini dovrebbe chiamarsi Asarcurdém (Noi ci ricordiamo)”, disse all’uscita del film Pier Paolo Pasolini.

In quella sceneggiatura Tonino ha infatti trasferito pezzi interi della sua memoria di bambino e di ragazzo.

Qualche esempio?

La poesia sul babbo che “fava i madeun” (faceva i mattoni) come il nonno; l’approccio fallito tra Titta e la tabaccaia, che assomiglia ad un episodio del suo romanzo “Dopo i leoni“, del 1956; la scena dello zio matto impersonato da Ciccio Ingrassia che grida “a voi ‘na dòna!” (voglio una donna!) dalla cima di un albero da cui non vuole scendere, già vista nella poesia “E’ gat sòura e’ barcòcal” (Il gatto sopra l’albicocco).

Direi che anche la gita al mare della famiglia col calesse è di Guerra.

Il tragitto? Da Santarcangelo alla spiaggia tutta dune di Torre Pedrera: un tiro di schioppo da casa mia.

Tatarcord, Tonino, ad c’la volta?

Da oggi Rimini è un po’ più povera

Questa notte il grande cuore di don Oreste Benzi, il “prete dalla tonaca lisa”, s’è fermato per sempre.
Ho appena sentito la notizia alla radio.
Di sicuro i notiziari delle prossime ore e i giornali di domani dedicheranno fiumi di parole al “don”.
Io lo voglio ricordare con alcune delle parole che nel 1999 mi regalò per il mio libro “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”:

I miei genitori appartenevano
a quella categoria di persone
che ritiene talmente di non valere nulla,
che sembra sempre

chiedere scusa di esistere.

Ciao, don Oreste, hai lasciato una grande eredità.

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”
L’amarcord di don Oreste: una chiacchierata su tela e mamme.

Don Oreste Benzi è nato nel 1925 a San Clemente, un piccolo paese collinare a 20 chilometri da Rimini, da una povera famiglia di operai, settimo di nove figli. E’ entrato in seminario a 12 anni. Ordinato sacerdote nel 1949, ha vissuto e vive tuttora un’intensa esperienza di “prete di strada”. Sempre in mezzo agli ultimi: handicappati, tossicodipendenti, prostitute, ammalati psichiatrici. E’ il “don” della comunità “Papa Giovanni XXIII” (166 case-famiglia e 27 comunità terapeutiche sparse in tutto il mondo).

Sì, anche mamma Rosa ha fatto tanta tela, nella sua vita. La ricordo con la connocchia in mano, nelle veglie operose, d’inverno, al caldino della stalla. Per tessere, si avvaleva del telaio comune che c’era a San Clemente: era troppo povera per averne uno tutto suo! Ricordo che i fasci di canapa venivano portati a macerare nel fiume Conca… Era sempre allegra, mia mamma. Cantava spesso, anche nelle avversità. Ripeteva: “Non si muove foglia, che Dio non voglia”. Mamma Rosa e babbo Achille ci hanno insegnato ad affrontare la vita con gioia. Quand’ero piccolo mi piaceva fare i lavori di campagna. Al mattino mi alzavo presto, verso le cinque, per andare a fare l’erba per i conigli e per la mucca. Poi andavo a lavorare con il babbo e con la mamma nel piccolo campo che avevamo. Ci si svegliava nella gioia e si viveva nella gioia, in una grande povertà. Quando il babbo andava a lavorare, al suo ritorno noi gli andavamo sempre incontro sulla strada principale che, attraverso un sentiero, portava a casa. Delle volte capitava che riportasse a casa quel po’ di cibo che si era portato dietro al lavoro: per noi era gran festa! Spesso non c’era nulla da mangiare: ricordo solo il pianto, la sera, perché avevamo fame. Allora lo dicevamo alla mamma e lei faceva scomparire anche la sofferenza per il poco cibo. I periodi brutti in casa erano quando il babbo non trovava lavoro e perciò non c’erano i soldi per comperare il grano da portare al mulino per fare la farina. Il babbo, in quei periodi, andava tutti i giorni a cercare lavoro. Per lui era un incubo tornare a casa e dire: “Non l’ho trovato”. Sono i ricordi più dolorosi della mia vita: da quelle esperienze nasce il mio senso della giustizia. Ricordo la parola (signoracci). Erano i proprietari terrieri, chiamati così in senso dispregiativo (“loro hanno tutto, noi non abbiamo niente”). Nella mia mente di bambino i formavano una casta: quelli che possono tutto, padroni della vita degli altri. I miei genitori, invece, appartenevano a quella categoria di persone che ritiene talmente di non valere nulla, che sembra sempre chiedere scusa di esistere. Quando incontro il povero, l’ultimo, il disperato, il barbone della stazione, la prostituta, in me si rifà presente l’immagine dei miei che pensavano di non valere nulla. Per questo non mi metto mai dalla parte dei potenti, ma dalla parte dei “nessuno”, di quelli che la società non fa esistere.

Noci e mandorle per fave e piade dei morti

Era una notte, una notte di tregenda, i miei capelli ballavano la samba…
Iniziava così una canzone che cantavamo attorno al falò durante i campi scout per spaventarci a vicenda scherzando su di un argomento da brividi.
Parlare dei morti senza averne paura. Un po’ come accade nella notte della vigilia di Ognissanti, quando si pensava che i defunti tornassero per qualche ora a visitare i vivi.
Nelle varie regioni italiane le usanze, oltre che ai riti religiosi, sono legate alla casa (che si doveva pulire e mettere in ordine e dove si preparavano letti per gli “ospiti”) e al cibo (con tavole imbandite e la preparazione di specialità caratteristiche).
Sui vari cibi tradizionali di questo periodo novembrino rimando alla lettura di due recenti post di Placida Signora e dei commenti lasciati da blogger e lettori di tutt’Italia.
Per quanto riguarda Rimini, qui da noi è usanza preparare la Piada dei morti, un dolce che nonostante il nome non ha nulla a che fare con la piadina che tutti conoscono.
Si tratta di una focaccia dolce dalla forma rotonda: una base di pasta lievitata condita con uvetta e una copertura di frutta secca. Una specie di panettone schiacciato, che potete vedere in questa immagine.
La ricetta? Esistono versioni leggermente diverse e pare che quella originale sia stata perduta insieme al suo depositario.
Altri dolcetti abbastanza semplici da preparare sono poi le Fave dei morti, di cui il maestro Pellegrino Artusi spiega origini e ricetta nel suo “La Scienza in cucina e l’Arte di Mangiar Bene”.

Copioincollo, augurando buona lettura e… buon appetito.

“Queste pastine sogliono farsi per la commemorazione dei morti e tengono luogo della fava baggiana, ossia d’orto, che si usa in questa occasione cotta nell’acqua coll’osso di prosciutto. Tale usanza deve avere la sua radice nell’antichità più remota poiché la fava si offeriva alle Parche, a Plutone e a Proserpina ed era celebre per le cerimonie superstiziose nelle quali si usava. Gli antichi Egizi si astenevano dal mangiarne, non la seminavano, né la toccavano colle mani, e i loro sacerdoti non osavano fissar lo sguardo sopra questo legume stimandolo cosa immonda. Le fave, e soprattutto quelle nere, erano considerate come una funebre offerta, poiché credevasi che in esse si rinchiudessero le anime dei morti, e che fossero somiglianti alle porte dell’inferno.
Nelle feste Lemurali si sputavano fave nere e si percuoteva nel tempo stesso un vaso di rame per cacciar via dalle case le ombre degli antenati, i Lemuri e gli Dei dell’inferno.
Festo pretende che sui fiori di questo legume siavi un segno lugubre e l’uso di offrire le fave ai morti fu una delle ragioni, a quanto si dice, per cui Pitagora ordinò a’ suoi discepoli di astenersene; un’altra ragione era per proibir loro di immischiarsi in affari di governo, facendosi con le fave lo scrutinio nelle elezioni.
Varie sono le maniere di fare le fave dolci; v’indicherò le seguenti: le due prime ricette sono da famiglia, la terza è più fine.
PRIMA RICETTA
Farina, grammi 200.
Zucchero, grammi 100.
Mandorle dolci, grammi 100.
Burro, grammi 30.
Uova, n. l.
Odore di scorza di limone, oppure di cannella, o d’acqua di fior d’arancio.
SECONDA RICETTA
Mandorle dolci, grammi 200.
Farina, grammi 100.
Zucchero, grammi 100.
Burro, grammi 30.
Uova, n. l.
Odore, come sopra.
TERZA RICETTA
Mandorle dolci, grammi 200.
Zucchero a velo, grammi 200.
Chiare d’uovo, n. 2.
Odore di scorza di limone o d’altro.
Per le due prime sbucciate le mandorle e pestatele collo zucchero alla grossezza di mezzo chicco di riso. Mettetele in mezzo alla farina insieme cogli altri ingredienti e formatene una pasta alquanto morbida con quel tanto di rosolio o d’acquavite che occorre. Poi riducetela a piccole pastine, in forma di una grossa fava, che risulteranno in numero di 60 o 70 per ogni ricetta. Disponetele in una teglia di rame unta prima col lardo o col burro e spolverizzata di farina; doratele coll’uovo. Cuocetele al forno o al forno da campagna, osservando che, essendo piccole, cuociono presto. Per la terza seccate le mandorle al sole o al fuoco e pestatele fini nel mortaio con le chiare d’uovo versate a poco per volta. Aggiungete per ultimo lo zucchero e mescolando con una mano impastatele. Dopo versate la pasta sulla spianatoia sopra a un velo sottilissimo di farina per poggiarla a guisa di un bastone rotondo, che dividerete in 40 parti o più per dar loro la forma di fave che cuocerete come le antecedenti.

Asanisimasa. Con Fellini da Gambettola a Rimini

Asanisimasa, asanisimasa, asanisimasa…

Cosa significa? Niente di niente.
E’ una cantilena senza senso, da ripetersi come l’abracadabra che dà la scintilla alle magie.
Tutti i film di Fellini sono pieni di parolette, trappole, scherzi, enigmi e giochi di parole. Questa, se non sbaglio, in un sogno felliniano è la tiritera ripetuta dalla vecchina nerovestita che rincorre i bambini prima di metterli a letto.

Forse era la nonna Franzchina, quella di Gambettola.
“Quand’ero ragazzino – raccontava Federico – d’estate andavo per un paio di mesi a Gambettola, un paesino vicino a Rimini. La campagna per me è stata una scoperta straordinaria. Uno scenario favoloso, un po’ magico: gli animali, gli alberi, i temporali, le stagioni, i rapporti dei contadini con le bestie, il fiume delle nostre parti (il Marecchia); perfino i delitti, selvaggi e brutali, dei contadini. C’era la nonna Franzchina, che sembrava la nonna delle favole, col viso tutto rugoso, il corpo magro però imbottito di vestiti, sempre vestita di scuro. Per punirci, con un rametto verde molto elastico, ci dava certe frustate leggere che noi prendevamo ululando in modo straziante.”
Nella campagna di Gambettola – paese natale del padre di Federico e, guarda caso, anche di mio padre – la vecchia casa dei Fellini c’è ancora. Gambettola, dunque, non è solo il paese degli ferrivecchi e delle stamperie di stoffa che tramandano l’antico metodo “a ruggine”: con la sua dinamica vita produttiva e culturale (a tal proposito segnalo il premio “Nemo propheta in patria?” che verrà consegnato il 9 novembre) è anche la prima tappa di un ipotetico Tour felliniano da farsi in Romagna e che in ogni caso porterebbe subito e di filata qui, a Rimini.
E proprio in uno dei luoghi-simbolo della nostra città, il Cinema Fulgor di Corso d’Augusto, domani sera, martedì 30 ottobre, Federico verrà ricordato a quattordici anni dalla scomparsa, avvenuta il 31 ottobre 1993.

La proiezione del film I clowns, sarà preceduta da una presentazione clownesca di Alfredo e Flavio Colombaioni, due dei quattro fratelli circensi che il Maestro scelse per il suo capolavoro sul magico spettacolo che incanta chiunque abbia uno spirito bambino. Fra avanspettacolo e clownerie varie i Colombaioni racconteranno com’è cambiata la loro arte dopo l’incontro con Fellini.
“Una serata insolita. – dice il direttore della Fondazione Fellini Vittorio Boarini – Un omaggio al Maestro, ma anche a Charlie Chaplin, di cui ricorrono i trent’anni dalla morte. Fellini amava molto Chaplin, l’aveva conosciuto e lo considerava tra i più grandi. Le analogie tra I clowns e Il circo, ma soprattutto Luci della ribalta, sono evidenti.”
Non mancherò.
Sento già l’invidia di qualcuno. Già! Abitare a Rimini ha diversi vantaggi.

Questo è solo uno dei tanti.

Post Scriptum: mi giunge ora da Roma, a “post già scritto”, la preziosa consulenza di Gianfranco Angelucci, scrittore e sceneggiatore, già collaboratore di Fellini, che precisa:

“Asanisimasa appartiene a ‘8 e ½’ in due sequenze diverse: alle terme con

la coppia di telepati e nel grande lettone della nonna a Gambettola. L’una scena rimanda all’altra.”

Grazie, Maestro Angelucci!