Da oggi Rimini è un po’ più povera

Questa notte il grande cuore di don Oreste Benzi, il “prete dalla tonaca lisa”, s’è fermato per sempre.
Ho appena sentito la notizia alla radio.
Di sicuro i notiziari delle prossime ore e i giornali di domani dedicheranno fiumi di parole al “don”.
Io lo voglio ricordare con alcune delle parole che nel 1999 mi regalò per il mio libro “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”:

I miei genitori appartenevano
a quella categoria di persone
che ritiene talmente di non valere nulla,
che sembra sempre

chiedere scusa di esistere.

Ciao, don Oreste, hai lasciato una grande eredità.

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”
L’amarcord di don Oreste: una chiacchierata su tela e mamme.

Don Oreste Benzi è nato nel 1925 a San Clemente, un piccolo paese collinare a 20 chilometri da Rimini, da una povera famiglia di operai, settimo di nove figli. E’ entrato in seminario a 12 anni. Ordinato sacerdote nel 1949, ha vissuto e vive tuttora un’intensa esperienza di “prete di strada”. Sempre in mezzo agli ultimi: handicappati, tossicodipendenti, prostitute, ammalati psichiatrici. E’ il “don” della comunità “Papa Giovanni XXIII” (166 case-famiglia e 27 comunità terapeutiche sparse in tutto il mondo).

Sì, anche mamma Rosa ha fatto tanta tela, nella sua vita. La ricordo con la connocchia in mano, nelle veglie operose, d’inverno, al caldino della stalla. Per tessere, si avvaleva del telaio comune che c’era a San Clemente: era troppo povera per averne uno tutto suo! Ricordo che i fasci di canapa venivano portati a macerare nel fiume Conca… Era sempre allegra, mia mamma. Cantava spesso, anche nelle avversità. Ripeteva: “Non si muove foglia, che Dio non voglia”. Mamma Rosa e babbo Achille ci hanno insegnato ad affrontare la vita con gioia. Quand’ero piccolo mi piaceva fare i lavori di campagna. Al mattino mi alzavo presto, verso le cinque, per andare a fare l’erba per i conigli e per la mucca. Poi andavo a lavorare con il babbo e con la mamma nel piccolo campo che avevamo. Ci si svegliava nella gioia e si viveva nella gioia, in una grande povertà. Quando il babbo andava a lavorare, al suo ritorno noi gli andavamo sempre incontro sulla strada principale che, attraverso un sentiero, portava a casa. Delle volte capitava che riportasse a casa quel po’ di cibo che si era portato dietro al lavoro: per noi era gran festa! Spesso non c’era nulla da mangiare: ricordo solo il pianto, la sera, perché avevamo fame. Allora lo dicevamo alla mamma e lei faceva scomparire anche la sofferenza per il poco cibo. I periodi brutti in casa erano quando il babbo non trovava lavoro e perciò non c’erano i soldi per comperare il grano da portare al mulino per fare la farina. Il babbo, in quei periodi, andava tutti i giorni a cercare lavoro. Per lui era un incubo tornare a casa e dire: “Non l’ho trovato”. Sono i ricordi più dolorosi della mia vita: da quelle esperienze nasce il mio senso della giustizia. Ricordo la parola (signoracci). Erano i proprietari terrieri, chiamati così in senso dispregiativo (“loro hanno tutto, noi non abbiamo niente”). Nella mia mente di bambino i formavano una casta: quelli che possono tutto, padroni della vita degli altri. I miei genitori, invece, appartenevano a quella categoria di persone che ritiene talmente di non valere nulla, che sembra sempre chiedere scusa di esistere. Quando incontro il povero, l’ultimo, il disperato, il barbone della stazione, la prostituta, in me si rifà presente l’immagine dei miei che pensavano di non valere nulla. Per questo non mi metto mai dalla parte dei potenti, ma dalla parte dei “nessuno”, di quelli che la società non fa esistere.

3 pensieri su “Da oggi Rimini è un po’ più povera

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