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Cumé i walzer ad Bilòz: i finés in gnint

Curiosando senza meta, ieri ho scoperto su Youtube diversi spezzoni dei film di Fellini.

Confesso che ho passato qualche ora attaccata al computer a guardarmeli…

Ogni tanto, qualche flash su fatti, personaggi o luoghi riminesi che conosco anche senza i suggerimenti del regista. Di alcuni ho già fatto cenno in post precedenti (per questo ho da poco aggiunto nel blog una “categoria Fellini”).

Sono collegamenti che mi piacciono.

Continuo con l’aiuto del poeta e commediografo Guido Lucchini, che nel suo libro “Raconta Remin, raconta” (Pietroneno Capitani Editore 2004) ci fa conoscere Bilòz, immortalato in Amarcord (in questo trailer del film, al punto 2.40, al passaggio del Rex è quello che chiede agli altri “Com’è? Com’è?”)

Bilòz, disegno di Pier Antonio Costantini

Scrive Lucchini:

Bilòz era un suonatore ambulante di organetto, non vedente. Suonava così, senza alcuna logica musicale. Suonava ad orecchio ogni motivo e canzone che sentiva. Erano tradizionali i suoi walzer, perché i andeva a finì in gnint (andavano a finire in niente), tanto è vero che ogni affare non concluso o un amore finito nel nulla erano classificati come “i walzer ad Bilòz”.


Bilòz

E sunèva tal cantéini dla zità

e sunèva se su urganéin

che tnéva a tracòla.

Un sunè senza féin

du che pochi nòti strapazèdi

lis pardéva te vusè

cl’aveva atorna.

L’òcc ciùs, senza piò luce,

forse e durmiva,

forse l’arpasèva tla su meint

i solit pensir

al soliti sperenze,

che pu tòtt us n’andèva finì in gnint

cum’è i su valzer.

Suonava nelle cantine della città

suonava col suo organino

che teneva a tracolla.

Un suonare senza fine

dove poche note strapazzate

si perdevano nel vociare

che aveva attorno.

L’occhio chiuso, senza più luce,

forse dormiva,

forse ripassava nella sua mente

i soliti pensieri,

le solite speranze,

che poi tutto se ne andava a finire in niente

come i suoi valzer.

Clarinet & drums in Rimini

Il Concerto di Natale offerto alla città di Rimini dall’associazione Amici del Jazz è ormai una tradizione. Penso di non essere mai mancata.

La sera di Santo Stefano, al Teatro Novelli, c’è stato un graditissimo ritorno, con la band romana diretta da Emanuele Urso, che già altre due volte, in passato, aveva entusiasmato il pubblico riminese.

La prima volta l’ho sentito suonare quand’era proprio un ragazzino, penso avesse 18-19 anni. E già era un fenomeno. Ora è cresciuto, personalmente e artisticamente. Appena 25 anni, certo, ma è un adulto, oggi leader indiscusso del suo ottetto, dove suonano anche il fratello Adriano, al pianoforte, e il padre Alessio, al contrabbasso.

Dopo i primi minuti sul palcoscenico Emanuele prende il via, si riscalda e parte con un crescendo che sembra prenderlo come potrebbe fare un giocattolo superdesiderato con un bambino che ancora sa gioire. Si diverte, Emanuele, col suo clarinetto. Degno erede di Benny Goodman, hanno detto di lui. E scusate se è poco! E che dire quando siede alla batteria? Funambolico alla maniera di Gene Krupa.

In questo video in bianco e nero Benny e Gene suonano insieme. Gustatevelo.

Insomma, Emanuele riunisce due grandi del jazz che sono stati amici ma che hanno vissuto anche periodi conflittuali.

Alla fine del concerto, inutile dirlo, il pubblico era entusiasta.

Peccato per chi non c’era.

Forse qualcosa si può rimediare: date un’occhiata al programma dei concerti sul sito della band, casomai capitasse dalle vostre parti. Nel frattempo, ecco i video su Youtube, così potete farvi un’idea. Qui Emanuele al clarinetto, qui Emanuele alla batteria.

Da parte mia, ringrazio per l’invito al Novelli il clarinettista Rino Amore, leader della “1^ Rimini Dixieland Jazz Band” e il presidente dell’Associazione Amici del Jazz, il mitico Vittorio Corcelli (al quale ho dedicato un articolo apparso sull’ultimo numero di Rimini In Magazine).

Rino e Vittorio, ricordatevi di me anche l’anno prossimo. Oh, yeah…

“Voglio trovare un senso a questa vita…”

Il leone che sa”, così viene chiamata Marilena Pesaresi, medico chirurgo riminese che da 44 anni opera in Africa dedicando la sua vita agli ultimi. Nel 2003 la dottoressa Pesaresi è stata eletta “Donna dell’anno” e un mese fa, a Roma, è diventata Commendatore della Repubblica Italiana. Quest’ultima notizia è passata in sordina. La dottoressa Pesaresi non ama la ribalta.

Pragmatica per forza, abituata alle emergenze quotidiane della sua missione, a Mutoko nello Zimbawe, sente il peso degli anni. “Sono stanca – ha detto recentemente – Sto pensando di ritirarmi, anche se lo faccio a malincuore, perché in Africa ho passato un periodo meraviglioso della mia vita.”

A 75 anni compiuti, di cui più della metà trascorsi nella sua Africa, “il leone che sa” pensa di non farcela più a seguire l’ospedale da lei fondato che oggi è un punto di riferimento per tutti i malati di cuore dello Zimbawe.

Quando, la scorsa settimana, ha presentato a Rimini i dati dell’Operazione cuore, Marilena ha detto: “Lottare per gli umili, abbattere tante barriere come ha fatto don Oreste Benzi, non significa fare della carità. Si tratta, semplicemente, di giustizia.”

Il progetto Operazione cuore da più di vent’anni consente ai malati assistiti dall’ospedale di Mutoko di potersi operare in Italia. In questi anni l’hanno già fatto 170 persone. Nel 2007 i bambini e i ragazzi operati a Rimini e Bologna grazie a Operazione cuore sono stati 13. Tutto questo grazie al filo diretto con Rimini, in primo luogo con la Diocesi e col fratello cardiologo Antonio Pesaresi. Fondamentale il sostegno della Regione, dell’Ausl e ultimamente anche del Ministero della Salute. Sono molte le famiglie riminesi che aprono la loro casa per ospitare i bambini che giungono in Italia per Operazione cuore e i loro accompagnatori.

Due anni fa ho conosciuto una ragazzina ricoverata a Rimini. Ero andata al Reparto di Pediatria con l’intenzione di far trascorrere qualche ora ai piccoli malati raccontando le favole di Cristella. L’impatto con la tristezza dei bambini è stato forte: c’era E., senza capelli per la chemio, che non aveva proprio voglia di sorridere, nonostante le insistenze della mamma e di questa sconosciuta signora che voleva raccontargli delle storie. C’era anche J., dall’età indefinita fra i 10 e i 14 anni, occhi e pelle nerissimi, accompagnata dalla nonna. La mamma era rimasta in Africa a badare al resto della famiglia. J., silenziosa, quasi adulta, coccolata e viziata da medici e infermiere. Più che dai libri, era attirata dalla televisione. Dopo due volte, non ce l’ho fatta più a tornare lì come raccontatrice di favole: quei bambini ne avrebbero potuto raccontare tante, a me, invece! Qualche mese dopo quella mia esperienza, proprio nel periodo di fine d’anno, ho letto su un manifesto appeso nel centro della città che J. non ce l’aveva fatta e che la silenziosa nonna era tornata a casa senza poterla portare con sé dalla sua mamma.

Si tratta di giustizia, non di carità.

Giustizia vuol dire anche che il Natale, come ci ha ricordato il nostro vescovo Francesco, non è solo il 25 dicembre di ogni anno, ma è tutti i giorni. Pensando all’Operazione cuore e a tutti coloro che vanno oltre al “buonismo in salsa dolce” di questo periodo, invito anche i lettori laici a meditare sul messaggio di Monsignor Lambiasi pubblicato sul settimanale Il Ponte. Il Vescovo cita Shakespeare – “Se il Natale non è, io non sono” – ma anche due cantautori contemporanei. Il primo, Vasco Rossi – “voglio trovare un senso a questa vita, anche se un senso non ce l’ha” – per smentirlo: la vita un senso ce l’ha, eccome.

L’altro, invece, spiega il Vescovo, è per ricordare che Natale è tutti i giorni.

“Un messaggio che qualche anno fa Luca Carboni ha inserito in una sua canzone: o è Natale tutti i giorni, o non è Natale mai. E’ interessante che i Vangeli non ci riportino la data precisa del Natale, il giorno e il mese preciso. Ci danno qualche indicazione di massima per l’anno, ma per quanto riguarda il giorno e il mese non c’è nulla. E i primi cristiani hanno scelto il 25 dicembre perché si faceva la festa pagana al Sole Invincibile, perché era appunto la festa del dio Sole. I cristiani hanno scelto quel giorno, ma questa è una cosa proprio bella perché sta a dire che ogni giorno può e deve essere Natale. E allora – conclude il Vescovo – mi sento appunto di augurare con le parole di Luca Carboni che sia Natale tutti i giorni, perché allora il 25 dicembre noi lo celebriamo appunto non perché sia Natale solo in quelle 24 ore ma perché sia Natale anche il 26, 27, 28 dicembre e così via”.

Buon Natale a tutti!

Che Natale sarebbe senza cappelletti?

Mi siedo al computer solo ora, dopo un pomeriggio in cucina.
Il rito dei cappelletti, quest’anno, a casa mia l’abbiamo anticipato di un giorno. Non la vigilia di Natale, come si fa di solito, ma oggi, usufruendo del congelatore che verrà riaperto il giorno di Natale per gettare nel brodo bollente il nostro lavoro odierno.
Nostro”, sì, perché per tradizione si tratta di un lavoro collettivo: la suocera, la nuora (cioè la sottoscritta) e la nipote mezzo-romana che ha nostalgie culinarie romagnole. Un pomeriggio intero a tirare la sfoglia, tagliarla in quadratini, riempirla col “composto”, richiuderla e formare file ordinate di cappelletti sui vassoi infarinati.

Calcolandone una ventina a testa e tenendo presente che a tavola saremo undici, abbiamo preparato la bellezza di 300 cappelletti… Si sa come vanno queste cose: meglio stare abbondanti!

E’ tradizione, in Romagna, che la vigilia di Natale la famiglia si ritrovi per preparare questo tipo di pasta. Ognuno fa qualcosa. E, come succede sempre con le preparazioni tipiche, le ricette, seppur simili, sono differenti da famiglia in famiglia. Quelli che abbiamo preparati oggi, ad esempio, sono i cappelletti della Romagna del sud, col ripieno di carne macinata e formaggio grattugiato, più somiglianti ai tortellini bolognesi.

Quelli della mia infanzia, invece, sono più tipici della zona di Cesena e del Rubicone: più morbidi, col ripieno di formaggi, a cui si aggiunge solo una piccola parte di carne (solitamente petto di cappone). Sono i cappelletti della mia mamma, che li faceva seguendo la ricetta di Pellegrino Artusi.

Il mio “Buon Natale” ai lettori passa quindi attraverso questo piatto della tradizione, così come lo racconta il gastronomo di Forlimpopoli.
Peccato che attraverso Internet non si possano ancora inviare profumi e sapori. Chissà, forse in un futuro neanche tanto lontano questo sarà possibile… Intanto, godetevi la lettura in “stile Artusi”.
cappelletti
Da “La Scienza in Cucina e l’Arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi

Ricetta n. 7 – CAPPELLETTI ALL’USO DI ROMAGNA
Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco.
Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180.
Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta.
Parmigiano grattato, grammi 30.
Uova, uno intero e un rosso.
Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace.
Un pizzico di sale.
Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera.
Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato. Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito.
Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine.

Férmat, pataca!

… piò t còrr tè, piò e’ còrr léu,

t si cmé un burdèl sla giostra

ch’u n gn’aréiva mai me caval davènti,

mo sl’arlòzz l’è un èlt zcòurs,

parchè e’ témp, sé, l’è sémpra dri ch’e’ pasa,

mo u n’à méggh’ ‘na gran testa,

u n’è gnènch’ bòn ‘d cuntè,

u n’e’ sa, léu, quèll ch’ l’è un minéut, un’òura,

ènch’ mezdè, s’u n gn’e’ sòuna e’ Campanòun,

par léu l’è tòtt cumpagn, sàira, matéina,

Nadèl, Pasqua, léu e’ pasa, e’ va drétt,

férmat, pataca, a n déggh par mè, par té,

guèrda un pò e’ mond,

sè, l’è cmè déi putèna ma la vòulpa,

u n s ragiòuna se temp, ta n pò fè un zcòurs,

ta n sé mai cmè ciapèl,

mo par furtéuna u i è l’arlòzz…

Questo è un brano della poesia “L’arlòzz” (l’orologio) di Raffaello Baldini.

In italiano perde un po’ di magia nel suono e nel ritmo.

Mi piace immaginare questo brano letto dalla voce dell’autore, anche se non sarà più possibile. Provo a leggerlo ad alta voce: bisogna provare e riprovare. Dopo un po’ si arriva ad un risultato appena decente.

In italiano, tutt’altra cosa. Comunque, eccone la traduzione:

… più corri, più corre,

sei come un bambino sulla giostra,

che non arriva mai al cavallo davanti,

ma l’orologio, è un altro discorso,

perché il tempo, sì, è sempre lì che passa,

ma non ha mica una gran testa,

non è neanche capace di contare,

non lo sa, lui, cos’è un minuto, un’ora,

anche mezzogiorno, se non glielo suona il Campanone,

per lui è tutto uguale, sera, mattina,

Natale, Pasqua, lui passa e va dritto,

fermati, pataca, non dico per me, per te,

guarda un po’ al mondo,

sì, è come dire puttana alla volpe (*),

non si ragiona col tempo, non puoi fare un discorso,

non sai come prenderlo,

ma per fortuna che c’è l’orologio…

Chi voglia ulteriormente meditare sul passar del tempo, può cliccare qui.

(*) “dir puttana alla volpe”, cioè “déi putèna ma la vòulpa” significa “fare una cosa inutile, di nessun senso”