Quando l’abbronzatura non era di moda. Il primo giorno di marzo in Romagna e fra le dune di Viserba.

Si sa: la pelle abbronzata un tempo identificava la persona costretta a lavorare all’aperto e alle intemperie. Guai!

Le signorine di città si riparavano dal sole con vezzosi cappellini e ombrelli di varie fogge, mentre le ragazze campagna si affidavano ad alcuni “scongiuri” che la tradizione fissava in una data ben precisa del calendario: il primo marzo.

Un appello al sole dispettoso: “cuocimi qui e non cuocermi il volto”.

Ecco due brani che spiegano questa curiosa usanza.

Usi e pregiudizi del primo giorno di marzo (da “Parché l’àn nòv u t’azuva, e’ prem dl’àn màgna l’uva”, Agenda storica 1999, a cura di Maurizio Matteini Palmerini. Pietroneno Capitani Editore Rimini).

“I contadini e le contadine per preservare la pelle dai danni del sole e del vento avevano escogitato un originale rituale. Nel primo giorno di marzo si denudavano il sedere “affinché dal morso della cottura estiva resti immune altrove che è, in passione, prerogativa gelosa della bellezza“.

Offrivano il deretano al sole mattutino esclamando al mondo:

“Sol d’merz cusum e cul e no cusr etar” (Sole di marzo, cuocimi il culo e non cuocermi altro).

Gli uomini salivano fin sul tetto della casa. Le donne invece mostravano la carne delle natiche, più pudicamente, da una finestra.

IL PRIMO MARZO

(da ‘Un cassetto in fondo al cuore ‘ di Tecla Botteghi, testo raccolto da Emanuela Botteghi, associazione Ippocampo Viserba)

Pirinela sora i cop, e fa veida e cul ma tot.

Il primo marzo attendeva da tutti una cerimonia importante dedicata all’inizio del bel tempo. Per scongiurare pericolose scottature,carnagione troppo scura,dannose insolazioni,si doveva mostrare ‘e cul ma merz‘. L’ora propizia era il primo mattino, al sorgere del sole. Era una cerimonia intima ed era opportuno che il sedere nudo fosse visto solo da marzo. Al mattino presto i bambini, con risatine soffocate, esigevano di essere soli. Poi spalancavano la finestra, controllavano che nessuno fosse in vista, tiravano giù le braghette, giravano il sederino verso il sole e recitavano la formula magica: ‘Marzo cuocimi questo e non cuocermi altro’ per tre volte. Poi si tiravano su i calzoni, o tiravano giù le sottane, e la cerimonia era finita. C’era però da fare i conti con i fratelli dispettosi che entravano sul più bello facendo loro ‘baia’; i più birichini mostravano il sedere facendo mille smorfie e finiva a cuscinate e a capriole. Le mamme provvedevano per i più piccoli perché anch’essi fossero salvi dai pericoli del solleone. A tavola i bambini guardavano maliziosi i genitori: “E voi, avete fatto vedere il sedere a marzo?’   “Sì. E dove?” “‘Sul tetto.”

Sol, sol benedet, tira fora i tre bacchet

un d’or, un d’arzent, un pè fè vni è bel temp.

Dopo la cerimonia propiziatoria al sole, marzo avanzava nella primavera. Era arruffato, scomposto, capriccioso. Esibiva con noncuranza alberi nudi, sterpi secchi, giunchi scapigliati, foglie fradice sparse ovunque. Lungo la riva del mare detriti scuri segnavano i limiti delle burrasche invernali. Ma c’era qualcosa nell’aria… Un venticello curioso andava a frugare tra stecchi e foglie morte come alla ricerca di un tesoro perduto. Dalla terra esalava un profumo fresco che sapeva di nuovo e di erba. Nelle pozzanghere fangose si specchiava un angolo di celeste. Una coccinella, comparsa chissà dove, zampettava lenta sullo steccato del cortile. Alla sera un raggio di sole indugiava a lungo sul tetto di casa lasciando premesse di sereno tepore. Sul mare la primavera avanzava. L’acqua diveniva del colore dell’aria e mandava un odore fresco di alghe. Il vento, scherzando con le onde, le ornava di gale bianche che il sole tingeva di rosa. Gli uccelli marini roteavano in cerca di pesci. Sulla riva le barche erano pronte alla toletta primaverile. Aleggiava intorno odore di catrame, di vernice, di fuoco fumoso, di legna umida. Le reti, stese sui cespugli e sulle dune come festoni bruni, emanavano odori salini.  Le nasse accatastate erano pronte all’uso. Bambine pazienti vi inserivano mazzetti di sempreverdi. I bambini saltavano sulla riva giocando con l’acqua gelida. Sciami di pesciolini color terra si tingevano d’oro là dove il sole li raggiungeva. L’acquadella argentea si esibiva tra le alghe in balli coreografici di gruppo. Un martin pescatore si tuffava in un guizzo d’azzurro e smeraldo. Giungeva invece la pioggia. Sottile, insistente si dedicava metodicamente alle pulizie: lavava i tetti, sciacquava la salsedine dei muri, ravvivava le foglie dei sempreverdi, innaffiava l’orto, irrorava il giardino con delicata determinazione. La terra avidamente beveva, si nutriva dell’acqua gentile che la purificava. L’aria sapeva d’erba nuova. La rena della spiaggia era tutta rivoli e crateri. Cullati dal bruscio della maretta, i gabbiani si affidavano alle onde placide. Il cielo notturno sapeva d’acqua; gli astri sembravano occhi velati di lacrime.

E piov, e piov è zil, aqua ad San Pir,

San Pir è semineva e tot us bagneva,

sa st’aqua e sa ste vent, dmen u sarà bel temp.



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