Perché certe cose succedono solo in dialetto…

Certe cose succedono solo in dialetto” diceva Raffaello Baldini a chi gli chiedeva perché si ostinava a scrivere poesie in tale lingua e non passasse invece all’italiano.

E’ vero. Il dialetto è la lingua della pancia, quella che viene fuori spontaneamente quando ci arrabbiamo o ci emozioniamo… E’  “lingua madre” in senso puro.

La pensa così anche Francesco Gabellini, che venerdì 24 febbraio sarà al Teatro Corte di Coriano con lo spettacolo “La fèma” (la fame).

Si tratta dell’anteprima de “La fèma”, una nuova commedia del poeta e drammaturgo riccionese. Lo spettacolo, prodotto dalle compagnie teatrali associate in Città Teatro e sostenuto dalla Fondazione Corte Coriano Teatro e dalla Provincia di Rimini, è frutto dei due anni de La Butèga, laboratorio sul dialetto come lingua di scena, coordinato da Giorgia Penzo e Francesca Airaudo e svoltosi a Coriano, che ha messo a confronto appassionati della lingua romagnola con attori e scrittori, alla ricerca di una nuova forma di drammaturgia in dialetto.

Il testo di Francesco Gabellini racconta con la forza poetica, comica e a tratti surreale che contraddistingue la sua scrittura, i retroscena di un banchetto di nozze andato in fumo, con tanto di sposa fuggita, camerieri in subbuglio, tartine smozzicate e baci rapiti, per riempire una fame che non è solo d’amore…

Il regista Davide Schinaia dei personaggi de La fèma dice: “Sono come pesci in un acquario, chiusi nel loro piccolo ristorante, che immagino isolato sulle colline dell’entroterra riminese, senza possibilità di fuga, se non qualche illusorio ‘salto’ fuori dall’acqua, per sognare un’alternativa che non viene mai seriamente intesa”.

A proposito del testo dichiara che “Aldilà della storia che narra – e con cui è tutt’uno – mi interessa per la lingua, un dialetto che vivo da straniero e che per questo mi sorprende, prima che per i suoi significati, per i suoni che produce, per i suoi scioglilingua, per l’alternarsi di momenti soffici e spigolosi. Ci sono espressioni che hanno senso solo in dialetto, perché è il suono che le autorizza ad esistere, e l’insieme di quei suoni svela anche un modo di pensare e di vivere, in altre parole l’identità di chi parla. Quando si ha per le mani un testo in dialetto – nello specifico in dialetto di area riminese – si ha la sensazione di leggere fra le righe ‘maneggiare con cura’, e questo per due motivi: in primo luogo per il rispetto che si dovrebbe avere proprio verso quella identità, e poi perché la comicità inscritta nei modi di dire e nei ritmi della parola attrae vertiginosamente verso la farsa. Allora emerge la necessità di cercare direzioni diverse, magari proprio a partire da come la parola si presenta anche a chi non la capisce, dal suo suono, per provare a percepire la sua vibrazione emotiva”.

Il lavoro su La féma si colloca in un percorso a tappe, partito due anni fa con un laboratorio sul dialetto – La butéga – e finalizzato alla messa in scena del testo redatto da Francesco Gabellini. Questa anteprima rappresenta una fondamentale occasione di confronto con il pubblico, utile a spingere il nostro lavoro oltre pratiche consolidate, per cercare soluzioni in divenire al problema del dialetto come lingua teatrale.

Per Francesco Gabellini al Teatro in dialetto significa “pensare anche a un Teatro che, nonostante la difficoltà di comprensione e la mancanza di una tradizione che gli abbia in qualche modo conferito uno statuto di lingua teatrale, possa uscire dai confini della Romagna, perché non credo che le barriere linguistiche siano muri insormontabili. Qualcuno mi potrebbe anche obiettare che allora potrei anche scrivere in italiano e il compito mi risulterebbe più semplice. Ma il risultato non sarebbe sicuramente lo stesso. Sì, è vero, sono, ancora una volta, d’accordo con Baldini, che non tutto si può dire in dialetto, ma ci sono cose che vanno dette proprio in quel modo e in nessun altro. A queste cose mi sento molto legato. Credo che il Teatro sia un patrimonio di tutti e che chi lo fa si debba porre due importanti obiettivi: lavorare per la qualità dello spettacolo e allo stesso tempo cercare di portare a Teatro la gente, anche quella comune che a Teatro non ci va più, ma si lascia distrarre dai potenti “mezzi di distrazione di massa.” In questa difficile impresa credo che il dialetto potrebbe esserci d’aiuto”.

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