Archivi tag: giornali

Dall’acqua al vino: vota “le mani di Cristella”

Su, su, è un gioco…

Premetto che nonostante gli sforzi del mio webmaster Dora non ho ancora ben capito come funziona un [tag]meme[/tag].

In attesa di capirci qualcosa di più, prometto solennemente e pubblicamente di rispondere al meme fotografico di Liuk (mentre invito i golosi a dare un’occhiata alle ricette inserite nei post più recenti del suo blog Mi arrangio). Risponderò appena avrò imparato come accidenti si fa a postare le fotografie.

Prometto anche la risposta a Shaindel, la gnappetta che dal Venezuela mi invita ad inviare gli auguri di Natale personalizzati attraverso un meme (dove comunque serve aggiungere un’immagine).

Beh, non sarà un meme, questo mio post, ma ci andrà vicino, visto che sto inserendo diversi link a blog amici…

Dopo aver segnalato il poliedrico Luca e la piccola-grande Shaindel, consiglio quindi una visita al blog di Stefano Mina, che cita il mio articolo sulla Corderia di Viserba (anzi, la Scorderia).

Da visitare anche la Casa di kikko ristrutturata, che è solo la cantina del ben più ampio palazzo del giornalista Enrico Rotelli.

Per rimanere in zona, molti avranno saputo che Appunti di viaggio di Michele Marziani ha tirato giù la saracinesca. Non mi azzardo a commentare le motivazioni, anche se vorrei farlo (è un campo minato!), ma io lascio Michele nei miei link preferiti e continuerò a leggerlo. Così come leggo sempre i suoi gustosi articoli su Chiamami Città e i suoi libri sulla cucina.

Segnalo pure Rimini Wikicity made by Gigi, a cui ho passato due articoli su Viserba e che è aperto a nuovi contributi storici secondo la Wiki-philosophy.

E, last but not least, come richiamato nel titolo vorrei passare dalle acque di Viserba a del buon vino Chianti classico: se entro il 10 dicembre voterete “Le mani in pasta di Cristella” (n. 37) attraverso questo post e io dovessi risultare vincitrice, potrei ricevere un regalo natalizio giusto giusto per brindare sotto l’albero.

Votantonio, votantonio!

In caso di vittoria (promessa di politico) realizzerò ovunque parchi, piste ciclabili, parcheggi e asili nido per tutti i bambini, raddoppierò la pensione ai nonni che si impegneranno in attività sportive, culturali e sociali, raddoppierò lo stipendio per ogni figlio in più, obbligherò i creatori di moda a non produrre abiti sotto la taglia 42 e – udite udite – potrei anche invitarvi a bere un bicchiere di Chianti con me nel salone delle feste.

Qui, nella reggia di Cristella, Regno di Sacrabionda.

La festa della donna? 365 giorni all’anno

A guardare i giornali e le trasmissioni televisive urlate pare che il mondo sia proprietà dei Vip.
E delle Vippe-donne.
Se non sei una Paris Hilton o una Monica Bellucci non conti nulla, se non sei una straf*** che si divide fra estetista e parrucchiera e non vesti firmato da capo a piedi puoi anche andare a nasconderti. Se indossi abiti di taglia superiore alla 44 non sei neppure degna di andare a una festa…
Ma è proprio vero?
No! Ci sarà anche qualche orchidea raffinata e qualche rosa elegante e vellutata, in questo grande giardino…
Ma, vogliamo mettere, le [tag]violette[/tag]?
Oggi, presa dalle mille cose da fare ogni sabato, ripropongo una poesia che ho scritto nel 1998 per la festa della [tag]donna[/tag].
Che non deve essere solo l’otto marzo.
Buona lettura!

Volevo un mazzolino di violette

Un’orchidea? Troppo sofisticata.

Un mazzo di rose?

Pieno di spine.

Un grappolo di mimosa?

Pianta delicata: non regge il gelo dell’inverno.

Allora?

Ma sì, semplicemente… un mazzolino di violette.

Spontanee e resistenti,

coperte nel sottobosco, ogni primavera rispuntano caparbie

da sotto le foglie cuoriformi…

Non temono gelo e incuria,

vengono calpestate e ignorate.

Messe in un bicchiere (temono il cristallo…)

profumano la casa.

Violette sono le donne normali.

Mamme, sorelle, fidanzate, mogli, figlie…

Noi.

I riminesi intraducibili. Dopo pataca, cuchèl e bucalòn

Poveri gabbiani riminesi!

In solitudine volano, lenti e indolenti, fra mare e spiaggia. In gruppi chiassosi si accodano ai pescherecci che rientrano carichi di pesci. Di nuovo solitari si appoggiano immobili in cima alla palata del porto, scrutando la luce all’orizzonte e meditando chissà cosa.

Ultimamente, come documenta un servizio di Icaro TV, cercano riparo dal freddo sotto il bimillenario Ponte di Tiberio e nell’attiguo parco Marecchia

C’è chi dedica loro poesie, chi canzoni, chi libri.

Noi riminesi, invece, questi concittadini così presenti nella nostra quotidianità li teniamo a distanza, quasi fossero stranieri della peggior stirpe. E per di più li abbiamo bollati con un nome dal tono dispregiativo, che richiama alla mente tipi incantati, immobili, storditi: cuchél.

In un articolo apparso di recente su Chiamami Città il giornalista Stefano Cicchetti ipotizza che l’etimologia del nome sia di origine portolotta, cioè di quell’unica lingua che fino agli anni ’30-’40 del secolo scorso veniva parlata dai marinai riminesi così come dai colleghi dell’Alto Adriatico, anche sull’altra sponda.

“Sei proprio un cucalone!”, si rimprovera ancor oggi con aria bonaria l’amico credulone, che non sa farsi valere e che segue la scia degli altri.

E’ cuchèl (il singolare va con l’accento aperto, grave, mentre il plurale cuchél vuole l’acuto) di solito è anche un po’ bucalòn: non proprio uno stupido, piuttosto un ingenuo buono.

Secondo lo scrittore Alfredo Panzini, “il cocàlo è sinonimo di uomo magrissimo, come pure d’uomo stupido, forse per l’immobilità della posa, forse anche perché pessimo a mangiarsi, cibandosi di pesci.”

Perché oggi scrivo di cucali?

A dire il vero l’idea c’era già da tempo, ispirata dall’articolo di Cicchetti che avevo apprezzato e dunque ritagliato e custodito nell’apposito spazio, etichettato “cose da fare”, del mio multi-archivio-sempre-superincasinato delle idee in sospeso.

Poi ho visto in Tv il servizio sui gabbiani al ponte di Tiberio.

Ma, come spesso accade, il “caso” ha voluto che uno sconosciuto lettore di questo blog, tale Giovanni, proprio ieri  -quasi timidamente e chiedendo scusa prima di bussare – abbia inviato un commento con la richiesta precisa: “qualcuno sa dirmi come si dice gabbiano in romagnolo?”

Di carattere sono più bucalòna che cucàla (forse perché credo che chi incontro sia sempre in buona fede e sincero), però sono anche curiosa come una scimmia: chissà perché il signor Giovanni voleva sapere dai riminesi qualcosa sui cuchél?

Da oggi Rimini è un po’ più povera

Questa notte il grande cuore di don Oreste Benzi, il “prete dalla tonaca lisa”, s’è fermato per sempre.
Ho appena sentito la notizia alla radio.
Di sicuro i notiziari delle prossime ore e i giornali di domani dedicheranno fiumi di parole al “don”.
Io lo voglio ricordare con alcune delle parole che nel 1999 mi regalò per il mio libro “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”:

I miei genitori appartenevano
a quella categoria di persone
che ritiene talmente di non valere nulla,
che sembra sempre

chiedere scusa di esistere.

Ciao, don Oreste, hai lasciato una grande eredità.

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita”
L’amarcord di don Oreste: una chiacchierata su tela e mamme.

Don Oreste Benzi è nato nel 1925 a San Clemente, un piccolo paese collinare a 20 chilometri da Rimini, da una povera famiglia di operai, settimo di nove figli. E’ entrato in seminario a 12 anni. Ordinato sacerdote nel 1949, ha vissuto e vive tuttora un’intensa esperienza di “prete di strada”. Sempre in mezzo agli ultimi: handicappati, tossicodipendenti, prostitute, ammalati psichiatrici. E’ il “don” della comunità “Papa Giovanni XXIII” (166 case-famiglia e 27 comunità terapeutiche sparse in tutto il mondo).

Sì, anche mamma Rosa ha fatto tanta tela, nella sua vita. La ricordo con la connocchia in mano, nelle veglie operose, d’inverno, al caldino della stalla. Per tessere, si avvaleva del telaio comune che c’era a San Clemente: era troppo povera per averne uno tutto suo! Ricordo che i fasci di canapa venivano portati a macerare nel fiume Conca… Era sempre allegra, mia mamma. Cantava spesso, anche nelle avversità. Ripeteva: “Non si muove foglia, che Dio non voglia”. Mamma Rosa e babbo Achille ci hanno insegnato ad affrontare la vita con gioia. Quand’ero piccolo mi piaceva fare i lavori di campagna. Al mattino mi alzavo presto, verso le cinque, per andare a fare l’erba per i conigli e per la mucca. Poi andavo a lavorare con il babbo e con la mamma nel piccolo campo che avevamo. Ci si svegliava nella gioia e si viveva nella gioia, in una grande povertà. Quando il babbo andava a lavorare, al suo ritorno noi gli andavamo sempre incontro sulla strada principale che, attraverso un sentiero, portava a casa. Delle volte capitava che riportasse a casa quel po’ di cibo che si era portato dietro al lavoro: per noi era gran festa! Spesso non c’era nulla da mangiare: ricordo solo il pianto, la sera, perché avevamo fame. Allora lo dicevamo alla mamma e lei faceva scomparire anche la sofferenza per il poco cibo. I periodi brutti in casa erano quando il babbo non trovava lavoro e perciò non c’erano i soldi per comperare il grano da portare al mulino per fare la farina. Il babbo, in quei periodi, andava tutti i giorni a cercare lavoro. Per lui era un incubo tornare a casa e dire: “Non l’ho trovato”. Sono i ricordi più dolorosi della mia vita: da quelle esperienze nasce il mio senso della giustizia. Ricordo la parola (signoracci). Erano i proprietari terrieri, chiamati così in senso dispregiativo (“loro hanno tutto, noi non abbiamo niente”). Nella mia mente di bambino i formavano una casta: quelli che possono tutto, padroni della vita degli altri. I miei genitori, invece, appartenevano a quella categoria di persone che ritiene talmente di non valere nulla, che sembra sempre chiedere scusa di esistere. Quando incontro il povero, l’ultimo, il disperato, il barbone della stazione, la prostituta, in me si rifà presente l’immagine dei miei che pensavano di non valere nulla. Per questo non mi metto mai dalla parte dei potenti, ma dalla parte dei “nessuno”, di quelli che la società non fa esistere.

Nuove regole di buona scrittura. Per ridere un po’

Lo so, lo so, ogni tanto vesto i panni della “Maestrina dalla penna rossa”: quando si tratta di segnalare refusi ed errori di ortografia fatti dagli altri sono eccessivamente pignola, rischiando spesso di non accorgermi delle sviste mie…
Queste frequenti inesattezze sulla carta stampata sono dovute anche al fatto che nelle redazioni dei giornali non lavorano più i cari e precisi correttori di bozze di una volta. Ora tutto è affidato alla tecnologia, che ragiona a modo suo.

Tanti errori, anche quelli in cui inciampano i comunicati ufficiali di enti e amministrazioni, sono spesso figli del correttore automatico di word.

Un esempio personale? Il mio cognome ogni tanto diventa un rassicurante Cuccioli, mentre Viserba, la cittadina in cui abito, viene velocemente convertita in Riserba.
Per restare in tema, oggi un quotidiano locale titola così: “Alcol vietato. Lombardi spinge la Regione ha impugnare la legge”.

Io avrei scritto “alcool” e “a impugnare”. Sulla prima correzione (la doppia “o”) forse sono ammissibili le due versioni. Sull’acca di troppo, invece, direi che l’errore è proprio grave!

E’ pur vero che per i quotidiani l’elemento “fretta” gioca il suo ruolo: scrivi adesso e fra due ore è già tutto stampato in qualche migliaia di copie, che fra otto ore saranno sui camioncini dei consegnatari e fra dieci sui banchi delle edicole. E chi corregge più?

Col blog, invece, se ti accorgi di aver sbagliato puoi sempre porre rimedio, magari dopo qualche giorno.
Per questo motivo ho ricontrollato – prima, dopo e dopo ancora – un nuovo arrivato in rete che era stato segnalato dall’amica blogger. Mi sono trattenuta dal lasciare un commentino velenoso (“Meglio ignorare”, ho pensato). Però, fa un brutto effetto, quando apri l’home page di uno che si presenta come giornalista di lungo corso e collaboratore di quotidiani a tiratura nazionale e ci trovi scritto, in bell’evidenza: “Un’altro blog? Il perchè.”
Passi per quell’accento grave che andrebbe immediatamente sostituito (e qui il correttore automatico aiuterebbe), ma l’apostrofo! La “Maestrina dalla penna rossa” lo boccerebbe di corsa, questo scolaretto!
… e gli farebbe studiare a memoria le regole di buona scrittura che ho copiato da un’altro blog (acc… è scappato un’apostrofo – anzi due – purammé!).
Alcune regole di buona scrittura


1) I verbi avrebbero da essere corretti
2) Le preposizioni non sono parole da concludere una frase con
3) E non iniziate mai una frase con una congiunzione
4) Evitate le metafore, sono come i cavoli a merenda
5) Inoltre, troppe precisazioni, a volte, possono anche, eventualmente, appesantire il discorso
6) Le indicazioni tra parentesi (per quanto rilevanti) sono (quasi sempre) inutili
7) Siate press’a poco precisi
8) Attenti alle ripetizioni, le ripetizioni vanno sempre evitate
9) Non lasciate mai le frasi in sospeso perché non
10) Evitate sempre l’uso di termini stranieri, soprattutto sul Web
11) Siate sintetici: cercate di evitare di cadere nell’errore di abbondare nell’utilizzo di vocaboli tronfi ed espressioni ridondanti, ovvero in tautologismi generalmente destinati a rivelarsi superflui
12) Evitate le abbreviaz. incomprens.
13) Mai frasi senza verbi.
14) I confronti vanno evitati come i cliché
15) Evitate le virgole, che, non, sono necessarie
16) Non usare paroloni a sproposito: far ciò è come commettere un genocidio
17) Imparate qual’e’ il posto giusto in cui mettere l’apostrofo
19) “Non usate citazioni”, come diceva il mio professore
20) Evitate il turpiloquio, soprattutto se non serve ad un cazzo
21) C’e’ veramente bisogno delle domande retoriche?
22) Come vi avranno già detto centinaia di milioni di miliardi di volte, non esagerate
23) Solitamente, non bisogna mai generalizzare