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Al pataca “us dà vanèla”

Oggi ho imparato un modo di dire romagnolo che ancora non conoscevo.

L’at dà vanèla!”, mi ha detto scherzosamente un signore di Santarcangelo riferendosi alla moglie che stava approvando un concetto che avevo appena espresso e su cui lui, il santarcangiolese misogino, non era del tutto d’accordo.

“Cosa vuol dire ‘dè vanèla’?”, ho chiesto.

“Ma come? – è stata la pronta risposta – tu che studi i dialetti romagnoli non sai cosa significa?”

E si è prodigato nella spiegazione.

Mé ai dag vanèla, té t’ai dé vanèla, lò ui dà vanèla… Voce del verbo ‘dè vanèla’. Semplice, no?”

Curiosa come sono di andare alle fonti, appena tornata a casa ho cercato (e trovato) nel Dizionario Romagnolo Ragionato di Gianni Quondamatteo.

dè vanèla“: dar corda, dar confidenza, dar la baia. Il bambino gioca col gatto, e alla fine busca un graffio? La mamma gli dice: “t’è vest, a dèi vanèla, cus che suzéd?” (hai visto, a dargli corda, cosa succede?). “Se ta j dé vanèla t’at n’incorz!” (se gli dai corda, te ne accorgi!). “It dà vanèla perché t’ci un pataca!” (ti danno corda perché sei un pataca!).

… ohibò, ma allora quel tipo fra le righe mi ha bollato come pataca

Visto cosa succede, a non approfondire bene lo studio delle lingue?

Dè vanela, pataca: qualcuno conosce modi di dire corrispondenti in altri dialetti?

Il dibattito è aperto…

I ravioli al sugo di pesce più buoni di Rimini? Alla Festa dell’Unità di Lagomaggio.

“Mamma, stasera uscite, vero?”

Quando viene da una figlia ventenne, questa semplice domanda sottintende: “Sai, perché ho già invitato a casa i miei amici e voi due sareste di troppo, visto che la cucina è una sola e la tv pure. Tra l’altro ho già ordinato otto pizze ed altrettante birre e fra un po’ arriva il pony-express. Mica ce le vorrai far mangiare fredde o accovacciati nella mia cameretta? Vero, mà, che stasera tu e il bà avete un bell’impegno in giro, magari una sagra o un concerto? E poi, volevamo guardare l’ultimo film scaricato da internet…”
Allora? Il bà ed io, si cerca di far buon viso a cattivo gioco… D’altronde anche noi abbiamo avuto vent’anni, no?

Per le cene fuori casa, a Rimini e dintorni ristoranti e pizzerie non mancano.

Ma d’estate (benedetta sia l’estate!) ci viene in soccorso il ricchissimo calendario di sagre, che solo a nominarle talvolta  viene anche da ridere: da quella della patata e degli gnocchi di Montescudo, a quella delle pappardelle al cinghiale di Gemmano, passando dalla dolcissima Festa del miele di Montebello.
Quasi ogni sera, dunque, si può scegliere una destinazione raggiungibile in mezzora di macchina e godersi qualche specialità cenando al fresco, su in collina.
E le Feste dell’Unità, dove le vogliamo mettere? In questi giorni il dibattito è aperto sul nome. Come si chiameranno in futuro questi appuntamenti, quando a gestirli saranno i volontari di un partito che ancora deve nascere? Boh?
Comunque, che si chiamino Feste dell’Unità o dell’Ulivo, poco importa. Che si mangi in piatti di plastica e su lunghi tavoloni, beh, si può anche chiudere un occhio, quando dentro ai piatti ci trovi qualcosa che ti piace.
 
Da giugno a settembre il calendario delle Feste dell’Unità, qui da noi, lascia pochi giorni vuoti.
Io e il bà, gentilmente invitati a lasciar libera la casa, ci siamo così fatti quasi tutte le feste della provincia (e altre ce ne saranno…), sviluppando una conoscenza critica di quanto offrono questi improvvisati chef, che spesso sono professionisti in pensione o prestati per qualche sera al partito.
Alla Festa di Canonica, andare per credere, si sono specializzati nella trippa e nelle lumache in umido. A Viserbella (caso unico, ripetono la festa anche fra Natale e Capodanno) in cucina ci sono dei pescatori, così come a Bellaria. Quindi  qua si deve assolutamente ordinare lo “spiedino del marinaio”, cucinato a vista su di un letto di sabbia: il fuoco al centro e, infilati verticalmente in cerchio, a una ventina di centimetri, gli spiedi di legno di tamerice con pesce succulento che si cucina al calore della fiamma viva. A Santarcangelo si va per la trippa (seconda solo a quella di Canonica, secondo una coppia di nostri amici), ma anche per il cinghiale con polenta. Rimini si ricorda per tutti i piatti di pesce e per la pizzeria, gestita dall’associazione Rimini Pizza fondata dall’amico Carmelo Calabrese. Ma il piatto più buono di quest’anno, ai primi di agosto, l’ho gustato alla Festa del quartiere Lagomaggio, a Rimini: ravioli al ragù di pesce come non ne avevo mai mangiati!
Non saranno ristoranti da Guida Michelin, d’accordo, ma secondo il mio modesto parere certi piatti delle Sagre delle patate e degli strozzapreti (che dir si voglia) e delle Feste dell’Unità o dell’Ulivo (che P.D. voglia) sono davvero impareggiabili.

Potrei anche raccogliere le segnalazioni dei lettori di questo blog su specialità assaggiate in feste e sagre, perchè no? Magari ne vien fuori una guida nuova ed originale, con o senza stelle…

“Uscite anche stasera, mà?”
“Si, bella. E non sai cosa perdi…”

Ma a lei, signora, cosa manca?

Ho appena aggiunto nei miei link preferiti il blog della Principessa sul Pisello, una bella ragazza che vive nel regno della Valscrivia.

Come Regina Cristella, l’ho incontrata solo pochi giorni fa in uno dei miei peregrinare in rete e mi ha subito incuriosita. Scrittura ironica e leggera, ogni tanto ti stordisce con un bell’affondo.

Intanto, per conoscerla un po’ anche voi, leggetevi questa cronaca (vera) di una normale e tranquilla giornata nel suo castello, Villa Arzilla.

Ciao, principessa Marina. Come nelle migliori cartoline: “baci da Rimini”. 

“Come vi ho già detto, qui a Villa Arzilla (per le puntate precedenti vd. nelle categorie), c’è sempre un gran via vai: studenti di musica che vengono un po’ da tutto il mondo per studiare canto con mio padre e mia zia, amici miei, amici e parenti dei miei genitori e, naturalmente, infermiere e medici per me. In queste due categorie si annoverano i più disparati elementi: l’oculista che mi porta i libri da leggere, il dietologo che mi parla d’arte e di Genoa, il dermatologo che sentenzia “tutti dobbiamo morire” e le espertissime e affettuose infermiere del servizio sanitario che mi portano peluche e buonumore. Proprio da una delle infermiere, in una fredda nevosa giornata, mi arrivò il seguente sms: “oggi ti porto un medico giovane e bello”. L’occasione era ghiotta e, nonostante il cuore irrimediabilmente impegnato, non potevo mancare al gustoso invito: cambio di camicia e di pannolone, passando dalla versione ascellare a quella baby, pettinata veloce, zaffata di profumo e occhio, quello ancora buono, languido. Ora, come avrete capito, la maggior parte dei medici che mi frequentano, viene, più che altro, per farsi una cultura medica, poiché io sono una sorta d’enciclopedia vivente per la quantità di sfighe e di patologie che assommo. Il Dottor F., effettivamente raro esemplare del genere maschile, assai affascinante e simpatico, dichiarò subito, bontà sua, di essere venuto solo per conoscermi (che, in poche parole vuol dire che voleva vedere da vicino la “rarità”medica!) e per sapere se avevo bisogno del suo aiuto, occupandosi lui di “terapia del dolore”. Provvedendo io, immantinente, a fare i debiti gesti scaramantici, sotto le coperte, sbattendo il mio occhio buono, scrivendo sul pc, lo rassicurai che, per il momento, non soffrivo di dolori e che, in ogni caso, lo avrei tenuto presente. La gaia conversazione si spostò poi su altri argomenti, allietata dalla presenza dei miei genitori e dalle due garrule infermiere, una delle quali, sicuramente, invaghita del doctor (stile E.R). Preso dalla foga della sua conversazione e affascinato dalla sua stessa voce, il novello Gorge Clooney, si sbizzarrì  con una domanda di carattere social-altruistico che segnò la sua rovina: ” Ma a lei, signora, cosa  manca?” Il silenzio cadde sugli astanti: tutti mi guardavano sorridenti e trepidanti mentre, solo il volto di mia madre, lasciava trasparire l’orribile presentimento che solo un cuore di mamma ha.  Con calma, pregustando la mia gioia, presi a scrivere, e sul video, campeggiò la mia risposta Cosa mi manca? S-C-O-P-A-R-E!”  Il Dottor F. sta ancora ridendo…”   

Il clavicembalo di Bach, lo chef e la voltapagine

Per la prima volta, ieri sera, ho ascoltato le note pizzicate del clavicembalo. Per la Sagra Musicale Malatestiana, una delle più interessanti  manifestazioni culturali della mia città, l’appuntamento era  a Castel Sismondo, in una delle sale al piano superiore della fortezza costruita nel XV secolo da  Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Il programma mi incuriosiva perché alle musiche di Bach, eseguite dal gruppo bolognese Cappella Augustana, era abbinata una non meglio definita performance culinaria dello chef Cesare Marretti. Sì, proprio lui, il fantasioso cuoco con cui ho fatto coppia alla trasmissione di Antonella Clerici La prova del cuoco e che in mio onore aveva battezzato la ricetta presentata in quell’occasione Strozzapreti di Cristella”.
Mentre dal palco le note di Bach incominciavano a creare l’atmosfera attraverso il clavicembalo di Matteo Messori e degli altri solisti del suo gruppo, un grande schermo mostrava i gesti di Cesare.
Mani di chef in bianco/nero. Strumenti pure loro. Dieci dita aggiuntive che hanno concertato insieme a violini, flauto, violoncello e clavicembalo, offrendo stimoli sensoriali diversi dalla musica (ma non non per questo fuori posto).
Dita che raccoglievano, bagnandosi col dolce succo, pezzi di frutta appena tagliata immersa in una grande ciotola. Dita che strizzavano limoni, stimolando automaticamente le papille gustative degli spettatori. Dita che, roteando con maestria l’apposita frusta, montavano una morbida e candida panna dove ciascuno avrebbe voluto tuffarsi…
Esperienza nuova, dunque, vissuta dalla poltroncina della platea con tutti i sensi accesi. Gratificati al termine, quando, fra gli applausi, lo chef ha offerto agli spettatori una coppa della sua “Mousse di Cesare Marretti”.
“Esecuzione unica – ha specificato Cesare all’amica Cristella – questa ricetta era solo per Bach e per questo concerto di Rimini.”
Come Paganini. Marretti… non ripete.
A parte l’aspetto gastronomico, sia chiaro che la serata è riuscita anche grazie all’esecuzione dei musicisti, che hanno meritato i lunghi applausi del pubblico.
Dalla mia postazione in terza fila ad un certo punto ho vissuto un momento magico: vedevo il violoncellista e il clavicembalista, esattamente di fronte a me, come incorniciati dalle sagome di chi mi era seduto davanti, assecondare col dondolio del corpo il ritmo della musica che stavano eseguendo, quasi rapiti. Ogni tanto, come un’apparizione: la voltapagine, tutta presa nel suo compito. Illuminato dalla luce giusta, sullo sfondo del nudo muro di mattoni di Castel Sismondo, il suo bel volto di Madonna colorava la scena, come un dipinto d’artista…

Dizionario romagnolo A – L

Avviso ai naviganti: più che di dizionario, si dovrebbe parlare di glossario. Infatti in queste pagine inserisco, di volta in volta, i termini dialettali che uso nei post. Quasi tutte le definizioni sono tratte dal Dizionario Romagnolo Ragionato di Gianni Quondamatteo.

Almadìra. Così chiamano, a Riccione, quanto il mare, dopo la burrasca, lascia sulla spiaggia. Sono alghe od altri vegetali marini che si ammonticchiano talora in grosse quantità. Raccolta e seccata all’aria e al sole, serviva di combustibile per la povera gente. Nell’almadìra (a Rimini almadéra) sono frammischiati pregadio, scurèzi ad dulféin, caparozi, pisoti e talvolta cannelli e poveracce. A Cattolica dicono: la spiagia l’é pina d’usne.

A m’arcmand. Arcmandè-s: raccomandarsi. A m’arcmand, dice la mamma al figlio che parte soldato. E dice tutto in quel verbo: che fili dritto, che scriva, che si nutra, che indossi la maglia di lana al momento giusto.

Arcurdè-s, ricordare, ricordarsi, rammentare. A m’arcòrd quand ch’a séra burdél… (mi ricordo quand’ero bambino). Mè a m’arcòrd ancora ad cl’eltra guera (io mi ricordo ancora dell’altra guerra). Chi s’arcòrda piò? (chi si ricorda più?). E arcòrdte ad caminè drét! (E ricordati di camminare dritto!), sia come minaccia, sia come paterno conisglio al figliolo che va a lavorare a Milano (nota per Gianluca, il mio lettore romagnol-milanese: ti giuro che nel Dizionario Romagnolo Ragionato di Quondamatteo è proprio scritto così!). T’an t’arcòrd piò quand tcèrte in bulèta? (Non ti ricordi più quand’eri in bolletta?). Molti lo dimenticano e, a ricordarglielo, c’è da farseli nemici.

Arzdora (o azdora) è la reggitrice della casa, alla quale sono affidati precisi compiti nel governo della casa.

Era bene che restasse sempre fra le mura domestiche, perché, dice un detto, “cvand che l’arzdora la va in campagna, l’è piò quel ch’la perd ch’n’è quel ch’la guadagna” (quando la reggitrice va in campagna, è più quello che perde di quello che guadagna).

Bucalòn. Voce usatissima per indicare lo stupidone, il babbeo, e anche l’ingenuo, in senso buono. L’è un pòri bucalòn! (E’ un povero credulone!). Nu fa e’ bucalòn! (Non fare lo sciocco!).

Cantarèla, cantarella. Semplice farina sciolta in acqua e messa sul testo a cuocere; tolta, veniva poi condita con olio e zucchero. Dolce più che semplice e casalingo, che allietava le serate. Fema du cantarèli?, facciamo due cantarelle?. C’è chi completa la ricetta aggiungendovi un po’ di farina di polenta, per renderla più morbida, e un po’ di latte.

Cuchèl. Ornit.: il gabbiano comune (Larus rudibundus), ma anche altre specie di gabbiani. Si dice cuclèssa per il (più grande) gabbiano reale (Larus argentatus) e cucalèt per il gabbianello (Larus minutus) e per le rondini di mare. Tra i nostri cocali, uno dei più grossi chiamato e’ chèga (il caca), ha la pessima abitudine di aggredire i più piccoli per farli vomitare e mangiare quanto espellono. Un proverbio: e’ cuchèl int la maréina (presso o sulla spiaggia), al va al pigre int la staléina, le pecore guadagnano l’ovile (perché il tempo volge al peggio). Fig.: uomo semplicione, come bucalòn. L’è un cuchèl! Cocàlo, scrive Panzini, e cocàl, dice, “è sinonimo di uomo magrissimo, come pure d’uomo stupido, forse per l’immobilità della posa, forse anche perché pessimo a mangiarsi, cibandosi di pesci.”
Faquajòn – chi “fa coglione” un’altra persona, chi imbroglia il prossimo, anche in cosa di minima importanza. L’è un faquajòn, si dice.

Garbéin – garbino, libeccio. E poiché proviene da sud-ovest, questo termine scaturisce dall’arabo garbì, ovvero occidentale, o garb, occidente. Tale autorevole origine si riverbera altresì nello spagnolo, nel provenzale e nel dalmatico (garbin). E’ un vento caldo, afoso, che soffia a raffiche, quasi sempre precursore di pioggia. Garbinàz, quand’è addirittura insopportabile. E’ un vento che dà anche sui nervi, che il meteoropatico preavverte con una diffusa irrequietezza anche molte ore prima: a sént e’ garbéin (sento il garbino), si dice; e, quando soffia, a so ingarbinèd (sono ingarbinato). L’ha e’ garbéin (ha il garbino), ha i nervi tesi. E’ va se garbéin, di chi è di comportamento mutevole. Fin che tira ste garbéin… (fin che tira questo garbino), fin che le cose stan così… Poiché il garbino è vento mutevolissimo, incostante, così si dice di persona che cambi dea, di voltagabbana: t’è la faza cume e’ garbéin (hai la faccia come il garbino) o t’fé tòtt al fazi cume e’ garbéin (fai tutte le facce come il garbino). In campagna: se garbéin e’ bòl e’ véin (col garbino bolle il vino) e con questo vento non si travasa il vino e non si “smette” il baghino (il maiale). Foriero, abbiamo detto, di tempo cattivo: siròc e’ garbéin, dicono infatti i marinai. D’estate, soprattutto, il garbino precede lo scirocco e l’immancabile pioggia. Di qui il modo di dire campagnolo: e’ garbéin en mèt sò e’ lèt a maréina (il garbino non mette su il letto in mare), non si ferma, cioè, ma ritorna indietro sotto forma d’altro vento e provoca guai; si dice anche adès e’ va zò e’ garbéin, l’è quand che torna indré! (adesso va giù il garbino, è quando torna indietro!). Sempre in campagna, per chi ha i capelli in disordine, o gli abiti, si dice: l’è rufid cum per e’ garbéin (è arruffato che mi sembra il garbino). Garbéin s-cèt (garbino schietto) o garbéin frèid (garbino “marcio”), quando non vi sono dubbi di sorta.

Gnara. Le locuzioni la è gnara, la s’fa gnara esprimono una situazione o un momento duri, difficili, critici. Anche la j è gnèra. La terra difficile a lavorarsi, è pure gnara; e così di un inverno che si preannunci cattivo, pesante per le conseguenze, si può dire quest l’è un’invernèda ch’la s’fa gnara!

Impajèda – la puerpera è l’impajèda. Nelle “Relazioni dei parroci del dipartimento del Rubicone, al podestà di Forlì (1811), c’è l’espressione a j’ò la moi int’la paja (ho la moglie nella paglia), che il marito pronunciava quando la moglie aveva partorito. Mentre a j’ò la moi in s’l’aròla (sull’arola) era detto quando la donna avvertiva le prime doglie. Alle prime doglie la donna sedeva davanti al focolare, coi piedi sull’arola, appoggiandosi alla conocchia. Impajèda era anche il pranzo in occasione del battesimo. Andém da l’impajèda (andiamo a trovare la puerpera) e le si portava in dono una gallina per fare un buon brodo, uova fresche, zucchero, caffè, ciambella. La prima uscita della puerpera era dedicata alla chiesa per l’offerta alla Madonna di un mazzo di candele.

Infézna. Sembianza, aspetto, immagine: le caratteristiche che contraddistinguono un volto, una persona. Avé l’infézna, averne l’aspetto, le sembianze; l’ha l’infézna de su pòri ba, è la copia di suo padre, è tutto suo padre.
Te d’ dis ch’l’è un tòc d’putèna? La m’aveva un pò d’infézna! Dici che era una puttana? Mi pareva che ne avesse l’aspetto! Avé ‘na brotta infézna, avere una brutta cera. Di uno che capisce poco: l’ha l’infézna de sumar (ha l’aspetto del somaro). Non mi ha l’aria, non ne ha l’aspetto, si traducono con un m’ha l’infézna!

Invurnìd. Stordito, intontito, istupidito, sciocco, tonto, tardo. In molti casi senza commiserazione alcuna, ma con un pizzico di rabbia, di cattiveria. Sa sit invurnit oz? (Sei invornito, oggi?) dici quando trovi un lavoro malfatto. Se gli autori sono più d’uno, invece, J è na squedra d’invurnìd! (Sono una squadra di invorniti). Di una persona anziana dici: ormai l’è bèla dvènt invurnìd (Ormai è quasi diventato un invornito).”

Luloun. Nel dialetto ravennate del sec. XVII valeva, “uomo senza cervello”. A Rimini e’ luloun è un po’ e’ bucalòn: chi gioca con bambini più piccoli di lui, chi si muove bambinescamente.