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Parcheggi, multe, tempi supplementari

All’uso (o, meglio, all’abuso) del disco orario ho già dedicato un post. Ma ci sarebbe molto da dire anche sulle famigerate strisce blu, quelle che delimitano gli spazi a pagamento.

Se non s’era ancora capito, io sono molto rispettosa delle regole: quando lascio la macchina negli stalli blu e pago fino, mettiamo, alle 16 e 55, comincio a sudare già alle 16 e 30.

“Devo correre! – dico alla commessa del negozio o all’impiegato dell’ufficio in cui mi sono recata – Sta per scadere il mio tempo!”

Se la commessa è furba, tra l’altro, capisce che quello è il momento giusto per rifilarmi quanto di più “scadente” ha in magazzino…

Ed io? Scappo e mi metto a correre. Letteralmente, rischiando tacchi e caviglie…

Quest’ansia deriva sicuramente dal fatto che i vigili di Rimini sono piuttosto inflessibili: se ti beccano col bigliettino “vecchio” di tre minuti, non perdonano e aggiungono una bella multa salata al loro blocchetto.

D’altronde non sempre si è in grado di preventivare quanto tempo richieda una sosta. Si può incontrare un’ amica che non si vedeva da anni o trovare una fila più lunga del solito…

E non è neppure giusto esagerare: pur di non incorrere nel pericolo della sanzione, a volte preferisco inserire nella famigerata macchinetta più soldi di quanto ragionevolmente richieda la sosta, magari sconfinando nel giorno successivo. Questa è solo una maniera di rimpinguare le casse del Comune, o di chi per esso, senza avere in contropartita alcun servizio.

Eppure, qualche alternativa alla formula “biglietto scaduto uguale multa salata” qualcuno l’ha trovata.

So che alcune città, come Palermo, hanno adottato delle piccole macchinette che funzionano come “parchimetri personali”, con ricariche tipo quelle telefoniche.

E mi sembra molto intelligente (questa è la motivazione del mio post di oggi), il sistema scoperto proprio ieri sera a Frascati, ai Castelli Romani. Appena ritornata da un breve viaggio da quelle parti, lo voglio segnalare come buon esempio, adatto ad una cittadina frequentata da molti turisti (cari amministratori riminesi: qualche volta si potrebbe anche copiare dagli altri, vero?).

In breve: con Paolo e Dora eravamo in una osteria-pizzeria caratteristica (dove con un piccolo costo fisso… seppò beve e magnà avvolontà, finché te stufi…).

Ad un certo punto un soprassalto: “Accidenti, abbiamo pagato il parcheggio fino alle 22. Dobbiamo andarcene, se non vogliamo prendere la multa!”

Ecchessarràmmai – ci tranquillizza l’oste – male che vada, i vigili lasciano un avviso di pagamento per la differenza. Quello che lei ha pagato fino alle 22 è già stato intascato dal Comune e lo scontrino lo garantisce. Se lascia la macchina un’altra mezzora, paga solo per questo tempo scoperto…”

Una buoma notizia che non ha fatto andare di traverso le pizze (ehm, confesso: “tante” pizze, plurale…) che avevamo appena mandato giù.

Toh, je faccio pure appubblicità, a quella fraschetta: “Ai due furiosi“, Frascati, vicino alla piazza del mercato e ai “porchettari”.

Andàtece!

[tags] parcheggio, multe, Frascati [/tags]

Martino e Tonino Guerra: le farfalle della libertà

Alla farfalla il poeta romagnolo Tonino Guerra ha dedicato una bella poesia ed alcuni disegni che gli artigiani dell’Antica Stamperia Pascucci di Gambettola hanno recentemente utilizzato per tovaglie, cuscini, tende...
La Farfàla
Cuntént própri cuntént
a sò stè una masa ad vólti tla vóita
mó piò di tótt quant ch’i m’a liberè
in Germania
ch’a m sò mèss a guardè una farfàla
sénza la vòia ad magnèla.
La farfalla
Contento proprio contento
sono stato molte volte nella vita
ma più di tutte quando mi hanno liberato
in Germania
che mi sono messo a guardare una farfalla
senza la voglia di mangiarla.

Tonino Guerra è stato prigioniero dei nazisti come mio padre Martino. Ha sempre raccontato, Tonino, che proprio nel periodo di prigionia il dialetto romagnolo, con l’atmosfera che sapeva ricreare, fu un’ancora di salvezza per lui e per i compagni conterranei. I suoi racconti nella ‘lingua madre’ facevano risentire suoni e profumi e tentavano di ricreare, almeno un po’, il calore di casa. Mi piace pensare che forse anche mio padre era fra quei compagni che Tonino ha riscaldato con le sue poesie.
E’ mi bà l’è sté prisunìr in Polonia. E racuntèva sempar che i l’aveva mandé a lavuré da dì cuntadéin. La fiòla de padroun l’ a s ciamèva Marta e la s’era un pò inamurèda de mi bà. “Wenn Krieg ist fertig, ich komme in Italien mit dir, Martino!”. Par furtouna l’a n’è vnouda, la Marta: mé a n saréb mai nèda. A cà u’i era la mi mà, la su bèla murousa, ch’l aspitèva!
Il mio babbo è stato prigioniero in Polonia. Raccontava sempre che lo avevano mandato a lavorare da dei contadini. La figlia del padrone si chiamava Marta e si era un po’ innamorata del mio babbo. “Quando la guerra sarà finita, io vengo in Italia con te, Martino!”. Per fortuna non è venuta, la Marta, io non sarei mai nata. A casa c’era la mia mamma, la sua bella morosa, che lo aspettava!
Per ricordare i circa 700.000 italiani che, come Martino e Tonino, sono stati prigionieri in tempo di guerra, proprio in questi giorni a Rimini si può visitare una mostra fotografica, a cui ho dedicato il seguente articolo.

Resterà aperta fino al 28 ottobre al Palazzo dell’Arengo, in piazza Cavour, la mostra fotografica “Prigionieri per la libertà” organizzata dal sindacato Cisl. Si tratta di un interessante percorso della memoria che ricorda la vicenda degli internati militari italiani durante la seconda guerra mondiale: una ventina di bozzetti in bianco e nero e a colori e oltre cento immagini scattate dal tenente di Marina Vittorio Vialli, geologo appassionato di disegno e fotografia. I luoghi sono quelli condivisi dai circa 700.000 soldati catturati dopo l’armistizio badogliano: i campi di prigionia tedeschi e polacchi. Le date sono incise nella storia: dall’8 settembre 1943 fino alla liberazione avvenuta nella primavera del 1945. Vialli fotografa il momento della partenza da Corinto dopo la cattura; il viaggio sui vagoni da bestiame durato trenta giorni; la vita quotidiana condivisa coi suoi compagni, con fame e violenze gratuite; l’arrivo del primo mezzo corazzato inglese che li liberò; il ritorno in patria nell’estate del ’45. “Ci auguriamo che la mostra diventi itinerante – hanno detto i responsabili della Cisl durante l’inaugurazione – Questi italiani, rifiutandosi di aderire alla RSI e per questo catturati dai tedeschi che li ritennero traditori, hanno rappresentato una ‘prima Resistenza’, come ha recentemente dichiarato il presidente Napolitano. Le fotografie sono a disposizione di scuole, comuni, sindacati e associazioni che volessero richiederle.” Fra il numeroso pubblico presente all’inaugurazione, anche alcuni reduci: ultraottantenni fieri e commossi nell’indicare ai più giovani i luoghi della prigionia ben evidenziati sulla grande carta geografica posta all’ingresso. Per loro, i “lavoratori coatti” o “schiavi di Hitler” che i tedeschi obbligarono a condizioni disumane in miniere, fabbriche e fattorie, pesa ancora la beffa del mancato riconoscimento di qualsiasi indennizzo da parte della Repubblica Federale Tedesca. Su 120.000 domande presentate attraverso i patronati sindacali nel 2001, solo 3.000 sono state accolte (se la prigionia era per motivi razziali o religiosi). “Lei è stato un Internato Militare Italiano, non un detenuto in campo di sterminio”, questo si legge nella “giustificazione” inviata dallo IOM di Ginevra (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) al signor Martino Muccioli, classe 1917 e scomparso nel 2002. Fu catturato in territorio dell’ex Jugoslavia il 10 settembre 1943 e per quasi due anni sudò in una fattoria polacca, dormendo nelle stalle accanto alle bestie. Altra sorte, invece, per le domande di indennizzo di chi lavorò in territorio austriaco. “A mio padre Elio, ex combattente e catturato in territorio albanese – racconta l’assessore Roberto Biagini – arrivò un assegno di circa 2.500 euro da parte della Fondazione di Riappacificazione Austriaca proprio il giorno prima della morte, il 9 settembre 2005.” Esattamente sessantadue anni dopo quello storico 8 settembre. Magra consolazione, verrebbe da dire. Come quella, del tutto simbolica, della proposta contenuta nella legge finanziaria 2007 per il conferimento di una medaglia d’onore “a tutti i cittadini deportati e internati nel lager nazisti” (art. 1, commi dal 1271 al 1276). Loro, i pochi ex deportati ancora in vita, aspettano ancora. Ai più, la medaglia, se ci sarà, verrà portata sulla tomba.
La mostra è aperta tutti i giorni (escluso lunedì), dalle 9.30 alle 12.30 e dalle 16.30 alle 19.30.

[tags] Tonino Guerra, mostra, resistenza[/tags]

Sant’Antonio da Rimini, fra miracoli e… paganelli

A grande richiesta di Placida Signora, oggi racconto una storia che forse neppure tutti i riminesi conoscono.

Uno dei santi più amati e venerati nel mondo, si sa, è Antonio da Padova.
“Potremmo ragionevolmente chiamarlo anche sant’Antonio da Rimini”, disse qualche anno fa un ministro portoghese invitato in città per una mostra artistica organizzata dal Meeting di CL. 
Nato a Lisbona intorno al 1195, figlio di una nobile famiglia, il giovane e colto Fernando (così era stato battezzato) decise di seguire le orme di san Francesco a Coimbra, prendendo il nome di Antonio. Giunto in Italia in seguito a vicende drammatiche, nel 1221 incontrò il Poverello d’Assisi, che,  ammirato dalla sua profonda dottrina, lo invierà in Romagna, a Montepaolo, vicino a Forlì. Lì rimase qualche tempo alternando preghiere, lavoro e studio. Una predica improvvisata, in occasione di un’ordinazione sacerdotale (era venuto a mancare il predicatore ufficiale), impose all’attenzione di tutti la sua profonda cultura, la capacità oratoria e la ricchezza interiore.
All’indomani, lasciato l’eremo di Montepaolo, il frate era già missionario itinerante e predicatore. Come poteva non dirigersi verso Rimini, città già allora ribelle, che rifiutava di ascoltare la Parola di Dio (eh, si sa, come sono ‘sti romagnoli, anarchici e comunisti…)?

Nonostante la sua ars oratoria e la sua cultura (si racconta che non ci fosse nessuno più convincente di lui nel convertire gli eretici), i riminesi non ne vollero proprio sapere. Facevano orecchie da mercante (in effetti, lo sono sempre stati, mercanti, marinai, albergatori, cementificatori…).

Disperato, o forse in segno di sfida, Antonio si recò sulla riva del mare, nei pressi della foce del Marecchia. A quei tempi era più arretrata rispetto ad oggi: vicino all’attuale ponte della Resistenza, dove poi, nel Seicento, venne costruita una chiesetta dedicata al Santo, danneggiata da un cannoneggiamento austriaco nel 1915 e definitivamente distrutta dai bombardamenti aerei del 1944.
Qui avvenne il primo miracolo. Come si legge nella “Franceschina” di Ubaldo Valaperta (testo dialettale di fine Ottocento) “alcuni pesci aprivano la bocca soctometendo lo capo, dimostrando che intendevano, et facevano segni, de laudare et ringraziare Dio come meglio sapevano.”

Mi sorge un dubbio (da “eretica”, Dio mi perdoni!): non è che questo fu il primo episodio di eutrofizzazione marina, con pesci boccheggianti come si videro una ventina d’anni fa ai tempi delle mucillagini?
Secondo la leggenda, comunque, soltanto un pesce non salì ad ascoltare la predica: era il paganello (un pagano fra tanti muti credenti!).
Per l’altro miracolo riminese ci si deve spostare invece in pieno centro.

Nell’attuale piazza Tre Martiri, di fronte al Santuario dedicato a san Francesco di Paola (detto “dei Paolotti”) sorge il Tempietto di Bramante eretto nel XV secolo in onore di sant’Antonio.
Qui, si dice, avvenne il miracolo della mula (in effetti altre città si contendono sia questo, sia il miracolo dei pesci…).
Ritroviamo come protagonisti, di nuovo, gli eretici riminesi, che non credevano che Gesù fosse veramente presente nell’ostia consacrata. Antonio ne discuteva in piazza con un contadino, che non riusciva a credere ed era fermamente convinto delle sue opinioni. Il frate era altrettanto fermo nelle sue idee. I due discutevano animatamente da parecchio tempo quando il contadino gli lanciò una sfida: “Lascerò la mia mula senza cibo per tre giorni e poi ci incontreremo. Io le offrirò del fieno e tu le offrirai l’ostia. Se la mula sceglierà quest’ultima, io crederò a quello che dici”.
Dopo tre giorni, mentre Antonio diceva Messa, il contadino arrivò con la mula affamata. Il Santo prese l’ostia in mano e la alzò al cielo. La mula non guardò nemmeno il fieno ed invece si inginocchiò di fronte all’ostia.
Morale: noi riminesi siamo più zucconi dei somari e dei pesci… Non c’è riuscito neanche sant’Antonio, a cambiarci. Se n’è fuggito presto a Padova, lasciandoci a mollo nel nostro brodo. Come paganelli.

Bel servizio al cliente, Telecom cara!

Arriva una telefonata con cui la Telecom offre un aumento di potenza alla linea Adsl. Da 4 a 20 MB. Ok, accettiamo. “Veniamo il 12 ottobre alle ore 12 per modificare la linea”. Questo dice l’operatore il 18 settembre.

A mezzanotte in punto la connessione sparisce. Pensiamo ad un guasto generale.

Solo la sera dopo, visto che tutto ancora tace, chiamiamo il 187.

“Ah, certo che siete sconnessi: abbiamo già attivato l’Adsl a 20 MB.”

“Ma come, allora dobbiamo stare oscurati per 24 giorni?”
“Ah, io non so dirle di più, chiami domani il servizio commerciale.”

Giorno dopo, telefonata al servizio commerciale. Finalmente si riesce a parlare con qualcuno, a cui rispieghiamo la situazione.

“No, no. Non dipende dai 20 MB, ci dev’essere un guasto.”

Richiamiamo il 187, non ricordo neanche più cosa rispondono. Comunque, nei giorni successivi sette/otto telefonate al giorno, verso operatori diversi, con la tensione che aumenta ogni qualvolta costretti a rispiegare cosa succede.

C’è di mezzo anche il fine settimana… Porta pazienza, Cri, potrai vivere un altro giorno senza Internet, no?

“Mandiamo un tecnico a verificare”. Alleluia! Risolto? Beata speranza! Il tecnico arriva (il giorno dopo), verifica e… per lui va tutto bene, “forse è il vostro Modem che non supporta la potenza”.

Azz, ma ditelo subito, no?

“Se è così, rinunciamo da subito ai 20 MB e vogliamo tornare ai 4. E, vista la scorrettezza di questo agire, vi preannunciamo che il prima possibile passeremo ad altro operatore…”

Finita lì? No, siamo appena al settimo giorno.

La connessione ancora non arriva. Richiamiamo il 187, un rimpallo continuo e versioni contrastanti sulla causa del problema.

“Entro 48 ore vi ripristiniamo i 4 MB”, assicurano.

Alla 50^ ora chiamiamo noi. Anzi, chiama Paolo, che quando alza la voce lo sentono da San Marino… (per chi non lo conoscesse: altezza 180, peso 120, due spalle da body guard).

“Domani la facciamo chiamare noi da un tecnico, perché qui si vede che abbiamo ripristinato i 4 MB e non capiamo perché ancora non funziona…”

E’ il 28 settembre, ore 17. Chiama il tecnico.

“Signor Paolo, le ho ripristinato la potenza da 4 MB cinque minuti fa.”

Cosa? Era una faccenda che si poteva risolvere in cinque minuti e ci avete tirato in giro per nove giorni? Ma siete da denuncia!

Morale della favola: se vi chiamano dalla Telecom (o da qualsiasi altro operatore, immagino) per proporvi un’offerta speciale, accertatevi bene sulla potenza del Modem, chiedete che la variazione la facciano solo quando sarete avvisati e che il black out duri il meno possibile.

E, particolare che vi farà risparmiare ulteriori incaz****ure e perdite di tempo, fatevi dire nome e cognome di chi c’è dall’altra parte.

I sogni si nascondono sulle nuvole

I sogni si nascondono nelle nuvole. Tornano giù, sulla terra, solo quando si avverano.
Protagonista di una mia favola è Trilly, una piccola fata che col suo retino ogni notte vola sopra i tetti delle città alla ricerca dei sogni perduti, quelli che stanno lassù, sulle nuvole.
Quando queste si riempiono troppo, i sogni ricascano giù. I brutti sono incubi e scendono trasformandosi in grandine e tuoni, quelli belli diventano pioggerella sbarazzina che scende delicata. Trilly, col suo retino, cerca di acchiappare quelli che stanno cadendo per sbaglio, per rimetterli al loro posto, ognuno sulla sua nuvola. Perché quando si fa confusione coi destinatari dei sogni, succedono grossi guai!
Ognuno ha i suoi sogni ricorrenti.
Io volo. Talvolta in alto, evitando il traffico delle automobili, ma rischiando di impigliarmi nei rami degli alberi più alti e nei fili dell’alta tensione. Altre volte volo più basso, solo qualche centimetro da terra e – sempre nel sogno – mi meraviglio che chi mi sta vicino non faccia caso a questo mio superpotere.
Sogno spesso l’esame di maturità (trent’anni fa!), ma anche le corse per non perdere il treno che per otto anni mi ha portato a scuola (eppure ero sempre la prima, in stazione, visto che i miei genitori mi hanno educato a “non arrivare mai tardi”).
Gli esami da sostenere, i treni da non perdere, gli appuntamenti da rispettare, volare un po’ più in alto degli altri: c’è materiale per qualche psicanalista, vero?
Oggi scrivo di sogni perché m’è capitato fra le mani un volume di Raffaello Baldini (“La nàiva, furistìr, ciacri”, Giulio Einaudi Editore Torino, 2000), poeta santarcangiolese che ho incontrato due o tre volte (l’ultima per la grande festa del suo 80° compleanno, al teatro Supercinema, qualche mese prima della sua scomparsa).
Aperto a caso il libro, mi ha attirato una bella poesia di Lello sui sogni.
A parte il sognare “dal doni bèli” (nel mio caso si tratta di “oman bél”) questi versi fotografano anche le mie notti oniriche.
I insogni (di Raffaello Baldini)
La nòta, mè, un insògni taca cl’èlt,
tòtt’ al nòti, l’è un cino, mo dabòn,
mé quant a m’indurmént,
l’è cm’a féss e’ bigliètt, quèll ch’u m suzéd,
a còrr, a voul, di post ch’a n gn’ò mai vést,
i m da dri, dal paéuri, u m bat e’ cor,
dal dòni, bèli, dal zità ch’a m pérd,
di culéur, zéinta véiva, zéinta morta,
ma dal cumbinaziòun ad robi che
dal volti a déggh, sémpra tl’insogni, quèsta
a la vooi racuntè, pu la matéina
a m svégg, a péns, a péns,e a n’m’arcòrd gnént.
 

I sogni
La notte, io, un sogno via l’altro,
tutte le notti, è un cinema, ma davvero,
io quando mi addormento,
è come se facessi il biglietto, quello che mi succede,
corro, volo, dei posti che non ho mai visto,
mi rincorrono, delle paure, mi batte il cuore,
delle donne, belle, delle città che mi perdo,
dei colori, gente viva, gente morta,
ma delle combinazioni di cose che
delle volte dico, sempre nel sogno, questa
la voglio raccontare, poi la mattina
mi sveglio, penso, e non mi ricordo niente.