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Ricky, poeta sognatore

la copertina del libro

Giunta alla boa del mezzo secolo, per Cristella chi ha meno di quarant’anni è un ragazzino. Dalla prospettiva di potenziale mamma, guarda quindi con estrema simpatia tutti quei giovani che si dilettano nelle varie arti: musica, pittura, scultura, cinema, fotografia, scrittura e… poesia. Sì, in questi tempi di omologazione, dove l’apparenza e l’avere sono i “valori” che comandano, trovare un trentenne che scrive poesie apre il cuore. Ma allora c’è ancora speranza per questo mondo e per il nostro futuro di sognatori non ancora del tutto arresi!

Riccardo Bertozzi si presenta subito, nel suo blog, come “impiegato in un albergo di Cattolica”. Niente di più normale, verrebbe da dire, per uno che vive in Romagna. Ma poi, ecco vacillare l’affrettato giudizio:  “nel 2004 la mia monotona vita di poeta sognatore è stata scossa da Christine, che ogni giorno mi spinge a credere in me stesso e ad essere migliore.”

Sognatore, una ragazza (che, per di più, si chiama quasi come Cristella) e il suo amore stimolante, la consapevolezza del proprio valore pur tendendo a “migliorare”… Sì, poeta è definizione appropriata.

Riccardo nel 2007 ha pubblicato la prima raccolta (“Gli occhi di Sonia”, Giraldi Editore, Bologna), acquistabile su Ibs, e ne sta preparando una seconda.

Sonia? Ma non si parlava di Christine?

Niente paura. “Non fermatevi a chiedervi chi sia veramente Sonia, se sia una figura reale o inventata – avvisa l’autore nell’introduzione al libro – Soffermatevi piuttosto sulla sua figura nel senso più metafisico, sul significato dei suoi gesti, degli sguardi nascosti tra le ombre della notte, sull’influenza benefica che ha sul poeta e su tutti ‘gli altri’. Riflettete sulla necessità che tutti noi abbiamo di avere una guida al nostro fianco.”

Una guida che ci difenda dai peggiori incubi, che Riccardo svela in “Maelstrom”:

Io sono la follia che striscia nella notte,
il male oscuro che scava nel cuore,
il re dell’incubo e del dolore.

Sono la bestia nera che infuria nei sogni,
il leviatano marino che incatena la terra,
la iena affamata che scatena la guerra…

Una guida per le notti più scure, spiega Riccardo in “La stella di Sonia”:

… Nella tenebra dura,
la stella di Sonia
brilla forte e sicura…

Dal giovane poeta cattolichino – che non smetta mai di sognare! – attendiamo con curiosità la seconda raccolta.

Riecco l’autunno, stagione di torte e di diete

Questo cambio repentino di stagione per Cristella – tra l’altro in ferie dall’ufficio, quindi con tanto tempo libero da riempire – significa, innanzitutto, rallentare i ritmi.

Al mattino dormire un paio d’ore in più; poi uscire con calma per il giornale, il caffé, la spesa; al rientro pasticciare coi cambi degli armadi (col dilemma ricorrente: “Oddio, ma questi pantaloni taglia 48 potrò mai rimetterli? Se ricominicassi la dieta?”).

Poi, complice il tempo a disposizione, senza l’orologio che la rincorre, tutte le migliori intenzioni di Cristella cascano… in cucina.

Tagliatelline tirate al matterello, da brava arzdora e, perché negarlo, anche qualche dolcetto, che fa tanto autunno.

Ecco una ricetta brevissima, facilissima, di riuscita sicura: la torta sbriciolina.

Ingredienti per la pasta: 300 grammi di farina, 5 cucchiai di zucchero, 1 uovo, 100 grammi di burro sciolto, 1 bustina di lievito per dolci.

Ingredienti per il ripieno: 250 grammi di ricotta, 150 grammi di amaretti sbriciolati, 1 uovo, 2 cucchiai di zucchero.

Preparazione: in una ciotola si mescolano gli ingredienti per la pasta usando la punta delle dita (in modo che risulti tutta granulosa e a briciole). In una teglia a cerniera imburrata si mette la metà di questo impasto, si versa sopra il ripieno preparato mescolando ricotta, amaretto uovo e zucchero e si ricopre il tutto con le briciole restanti. Si cuoce in forno a 180° per 40 minuti.

Quando la torta è fredda si spolvera con zucchero a velo.

Buon appetito!

Sanatio: due chiavi e una fede.

Iacta est alea. 1983

Sì, penso che il titolo possa incuriosire abbastanza…
Qualcuno sa cos’è una Sanatio? Pian piano lo spiegherò. Intanto, incomincio pubblicando la prima puntata di una storia che coinvolge due ragazzi di mia conoscenza.
A chi avrà la pazienza di aspettare le puntate successive verrà svelato il Valore (con la maiuscola!) del titolo. Buona lettura.

Dedicato alle due Principesse.

“Sanatio: due chiavi e una fede”
(puntata numero 1)

Chiara, da ragazzina, passava quasi tutto il tempo libero in parrocchia.

E continuò anche da grande. Non solo messe e cerimonie: partecipazione attiva.

Non si vergognava, quando, fazzolettone scout al collo, giocava in piazza coi lupetti, gridando a squarciagola coi più vivaci.

La domenica non si preoccupava troppo di vestire abiti “bon ton” per fare bella figura agli occhi delle signore impellicciate e profumate. Stava nella prima panca anche se portava le scarpe da tennis, con la certezza che ciò che importava veramente era l’interno, non l’involucro.

Ammirava san Francesco e la sua povertà. Aveva conosciuto ed apprezzato la serenità del movimento dei focolarini di Chiara Lubich. Si dava da fare, praticamente, dove c’era bisogno. La sua era una fede di ricerca. Comunque attiva, più che contemplativa.

Ma all’età di ventidue anni successe qualcosa: un po’ alla volta la sua frequentazione divenne più rada. Cominciò, con una scusa o l’altra, a defilarsi. Pian piano arrivò a non farsi vedere più in parrocchia.

Cos’era successo? Semplice: si era innamorata.

Davide, quattro anni più di lei, non era dello stesso ambiente e in parrocchia pochi ebbero modo di conoscerlo. Chiara non lo presentò neppure all’amico parroco.

La storia politica di Davide lo inquadrava in una ben precisa area di pensiero. Nella sua città era conosciuto per i trascorsi giovanili nelle file della contestazione studentesca di sinistra. Per anni aveva vissuto l’esperienza anarchica (lui si definiva “libertario”), dalla quale si era allontanato da tempo per diversi motivi, ma che contraddistingueva sempre, in molti principi e valori, il suo modo di essere.

Una persona coerente con le sue idee, senza mezze misure e compromessi: questo piacque a Chiara più di tutto.

Sin dall’inizio il ragazzo non impedì mai a Chiara di continuare con gli impegni che lui, per la sua ideologia, però non condivideva. Tuttavia venne naturale che, un po’ alla volta, fosse lei ad adeguarsi al suo stile di vita.

Ad un certo punto Chiara arrivò a una scelta: stare con lui al cento per cento voleva dire lasciare l’ambiente della chiesa.

Era fatta così anche lei, che ci poteva fare? O tutto, o niente.

Anche ora. Certo, un difetto: gli accomodamenti non fanno per lei.

Quando andò nel Comune del suo paesino per le pubblicazioni del matrimonio, il sindaco comunista, che l’aveva vista fino a qualche mese prima sempre sul sagrato della chiesa, fece un salto così!

Non intendeva sposarsi al paese, perché nella città di Davide la cerimonia sarebbe stata più suggestiva, nel salone di rappresentanza del palazzo duecentesco del Comune. Voleva una bella cornice, per quella giornata irripetibile, anche se non sarebbe stata nella tradizione cattolica.

Il compagno Peppone tentò una proposta: “Se ti sposi qui, facciamo la cerimonia nel nuovo Palazzo del Turismo, di fronte alla chiesa. Lo inauguriamo col tuo matrimonio, dai!”

Sarebbe stato un bello smacco per quelli della parrocchia!

Naturalmente Chiara non accettò… Sotto sotto si sentiva in colpa verso il parroco, che le era stato vicino negli anni difficili dell’adolescenza. Inoltre, sarebbe stato molto imbarazzante. Non solo per il don Camillo della situazione, ma anche per lei e i familiari, che avrebbero comunque preferito un matrimonio nella norma.

Fu quindi il sindaco della grande città ad avere l’onore di unire i due liberi cittadini Davide e Chiara in un freddo pomeriggio d’inverno.

Eleganza stile anni quaranta. Mantello color tortora, cappellino nero con veletta a coprire il viso e volpe argentata sulla spalla, Chiara si sentiva una diva. Nella piazza più bella della città, tutta in ghingheri andava incontro sorridendo al suo ragazzo che, per una volta in cravatta e doppiopetto blu, l’aspettava porgendole un bouquet di boccioli di rosa.

Tanti flash dell’amico fotografo sullo scambio di fedi e di impegni.

Facendo firmare il registro dei matrimoni il primo cittadino, fasciato nel nastro tricolore, diede lettura degli articoli del diritto di famiglia che vincolano i coniugi… Naturalmente, senza alcuna benedizione.

Strette di mano e auguri personali accompagnati dai doni di rito: rose rosse per la signora e stampe storiche per il coniuge.

La classica fotografia sotto il gonfalone della città ed il suo motto, di romana memoria, ben si addiceva all’avvenimento: “Iacta est alea”.

Come dire: firme definitive, non si torna indietro, Chiara!

– continua alla prossima puntata –

L’orto di Liseo in settembre

Dalla raccolta “L’òrt ad liséo” di Tonino Guerra, dedico questa immagine settembrina agli amici blogger Luca (ortocentrista), Mitì (immersa in bucolica pace vegetale) e Princy (anzi, ai suoi Duchi dell’Orto).

Setémbar

U i è stè di temporèl
ch’i à céus l’instèda e Liséo
u s’è mèss datònda e’ còl una siarpina ‘d lèna.
A mità ‘d setémbar u s’è arvést e’ sòul
e léu l’a decéis da infilé dal bòci svòiti
tl’òrt, a tèsta d’inzò
tra mèz i sintìr di fasulòin
fina che ‘d fura un restéva
quatar dàidi, gnénca. Apéna la tòpa
la sintéva che i su segnèl,
te schéur dla tèra, i rimbalzéva indrì
piò grénd, pròima la s’è férma
e pu la s’è mèssa a rinculé fina ch’la è scapa.

La à ziràt dis dè sla sponda de Marèccia
e davènti e’ prè dla zlòina.
Tl’òrt la s’è fata vòiva da sècch
s’un ghirighoro ad strèdi ch’al ziréva
datònda mal bòci e la butéva pr’aria i fasuléin.
Alòura Liseo u s’è mess ad aspitèla
s’un bastòun ch’l’éva la péunta agòzza
par infilzéla. Di dè u i zcuréva:
“Vén fura s’t é curàg, fat avdài, vigliàca!”
E intént e’ paséva al stmèni e léu e’ stéva inguèrdia.
Dal vòlti u s’alzéva da sècch e l’instichéva
e’ bastòun purséa, dròinta e ‘d fura dl’òrt
par avdài s’u la ciapéva d’inzècch
e la tòpa in chi mumént l’era tòtta la tèra.
U i parléva sotavòusa par fèi capòi che léu
l’éva una vòita mal spali ch’la n finòiva mai
e u n’éva paéura gnénca de Padretéran.
L’à cmòinz a racuntè ad cla vòlta da burdèl
te méllanovzént e òng che badéva dò pigri
ch’al durméva sòtta un èlbar e l’è arivat te zil
una ròba tònda ch’la féva una bòba de dièval.

Una vècia la à tach a sunè al campèni
ch’l’era e’ segnèl dla foin de mònd
e sta nòvvla la rasentéva i chèmp
s’un’òmbra giaza ch’la sguiléva
dròinta la vala sòura la zénta
ch’la stéva d’inznòc e a tèsta basa.
Dop u s’è savéu che ma sta pala i l’éva numinè “e’ dirigébal”
e bsugnéva stéi dalòngh si furminènt,
che féva una fiambèda
cumé se fòss agli èli d’una farfala se fugh.

Settembre

Ci sono stati dei temporali che hanno spento l’estate e Eliseo si è messo attorno al collo una sciarpetta di lana. A metà settembre si è rivisto il sole e lui ha deciso di infilare delle bottiglie vuote nell’orto, a testa in giù in mezzo ai sentieri dei fagiolini, fintanto che fuori ne restavano quattro dita, neanche. Appena la talpa si è accorta che i suoi segnali nel buio della terra rimbalzavano indietro
più grandi, prima di tutto si è fermata poi si è messa a rinculare fino al’uscita.
Ha girato dieci giorni sulla sponda del Marecchia e davanti al prato della celletta.
Nell’orto si è rivista all’improvviso con un ghirigoro di strade che giravano attorno alle bottiglie, buttando all’aria i fagiolini. Allora Eliseo si è messo ad aspettarla con un bastone che aveva la punta aguzza per infilzarla. Certi giorni le parlava: “Vieni fuori, se hai il coraggio, fatti vedere, vigliacca!”
Intanto passavano le settimane e lui stava in guardia.
A volte si alzava di scatto e conficcava il bastone all’impazzata dentro e fuori dell’orto per caso per vedere di infilzarla, e la talpa, in quei momenti, era tutta la terra. Le parlava sottovoce per farle capire che lui aveva una vita alle spalle che non finiva mai e non aveva paura neanche del Padreterno.
Ha cominciato a raccontarle di quella volta da bambino, nel millenovecento undici, che badava due pecore addormentare sotto a un albero e è arrivata in cielo una cosa tonda che faceva un fracasso del diavolo.
Una vecchia ha cominciato a suonare le campane, che era il segnale della fine del mondo, e questa nuvola rasentava i campi con un’ombra ghiaccia che scivolava dentro la valle sopra la gente che stava in ginocchio e a testa bassa.
Dopo si è saputo che a questa palla l’avevano chiamata “il dirigibile” e bisognava stare lontano coi fiammiferi, altrimenti faceva una fiammata come se fossero ali di farfalla sul fuoco.

La Russa rimandato in storia. Mamma e babbo, invece, promossi

Sull’inserto Domenica de Il Sole 24 Ore di ieri, 14 settembre 2008, Riccardo Chiaberge propone il suo interessante Contrappunto, che trovo anche sul suo blog e riporto qui di seguito. Alla citazione era mia intenzione aggiungere, semplicemente, “no comment”…Poi ci ho ripensato: commentare SI DEVE. Il pericolo più grande, a distanza di appena 65 anni (un battito di ciglia, nell’orologio della Storia) è dimenticare. O, peggio, far passare versioni in qualche modo aggiustate dai posteri (1984 di Orwell dice qualcosa?)…

Dalla mia periferia storica e geografica posso solo riportare i ricordi di Martino Muccioli, classe 1917, che l’8 settembre 1943 era soldato in Yugoslavia. I tedeschi lo presero prigioniero e lo portarono in Polonia, dove rimase fino al termine della guerra a lavorare in una fattoria. “Trattato peggio di uno schiavo – raccontava – ma comunque privilegiato rispetto a tanti compagni. Almeno qualche volta mangiavo patate e cavoli. Dormivo nella stalla con le bestie.”

Martino, mio padre, è stato uno dei fortunati che sono riusciti a tornare a casa, trovando lutti e distruzioni. Nel frattempo la sua fidanzata Pierina, mia madre, ferita gravemente, aveva avuto la famiglia decimata da una granata degli alleati. Il 25 settembre 1944 a Gambettola morirono in un sol colpo, sepolti dalla terra del rifugio in cui avevano tentato di salvarsi, suo padre, suo nonno, tre fratelli adolescenti, quattro cugini (bimbi e adolescenti) unici figli di zii rimasti disperati. Grazie a Dio Martino e Pierina si sono ritrovati, si sono sposati nel 1945 con abiti neri in segno di lutto. Hanno avuto quattro figli, di cui io sono l’ultima, nove nipoti e, al momento, cinque pronipoti.

Come tanti altri che l’hanno vissuta, loro oggi non sono più qui a raccontare la loro verità. Posso solo testimoniare il terrore dei ricordi di quegli anni, il sobbalzare – anche dopo quarant’anni – quando passava un aereo a bassa quota, l’avversione per chi vestiva di nero. Anche loro, così “piccoli”, hanno fatto un pezzo di Storia.
Nella scuola di oggi e di domani, quella raccontata da Chiaberge, queste “favole” chi le racconterà più?

Ecco il suo testo:

Dal diario scolastico 2008-2009 di uno studente del liceo «Claretta Petacci» di Salò.

Lunedì 8 settembre

Caro diario, oggi è il primo giorno di scuola, e il nuovo prof di storia, un tipo barbuto di nome La Russa, ci ha spiegato l’armistizio del 1943 e la Repubblica sociale, che aveva stabilito la sua capitale proprio nella nostra città. L’Italia era spaccata in due. Il prof ha detto che dobbiamo ricordare non soltanto i partigiani, ma anche i repubblichini: «Altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell’esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d’Italia». Gabsosia004bignaziolarussa Poi è venuto a trovarci il preside, Giorgio Napolitano, e ha parlato della speranza di libertà e di giustizia «che condusse tanti giovani a combattere nelle formazioni partigiane». E del senso del dovere, della fedeltà e della dignità «che animarono la partecipazione dei militari, compresa quella dei seicentomila deportati nei campi tedeschi, rifiutando l’adesione alla Repubblica di Salò». A chi dobbiamo dar retta? Il preside a me sta più simpatico, ma il professore è quello che ci interroga e ci dà i voti. Insomma, l’anno comincia maluccio…

Giovedì 11 settembre

Oggi è venuto in classe il vicepreside, prof Silvio Berlusconi, e ha fatto un elogio di Italo Balbo, il gerarca fascista con la passione del volo, spedito dal Duce a fare il governatore in Libia: «Balbo in quel Paese – ha detto – fece cose egregie, cose buone. La colonizzazione italiana ha avuto anche aspetti positivi». La più bella della classe, reduce dal concorso di miss Linea Gotica (giuria presieduta da Erik Priebke), ha alzato la mano: «Ma allora perché abbiamo dato tutti quei soldi di risarcimento a Gheddafi?». Con la scusa di una zanzara che lo infastidiva, il vicepreside se n’è andato sbattendo la porta.Italo20balbo_2

Sabato 13 settembre

Il prof La Russa è ammalato, e oggi è arrivato il supplente, uno spilungone che si chiama Gianfranco Fini. Per prima cosa ci ha fatto fare un tema: «Partigiani e ragazzi di Salò». Noi, diligentemente, abbiamo scritto che vanno onorati allo stesso modo. Lui si è infuriato e ha dato l’insufficienza a tutti: «Non bisogna equiparare chi sta da una parte e chi dall’altra – ha spiegato –. I resistenti stavano dalla parte giusta mentre i repubblichini combattevano per una causa sbagliata». Chi ci capisce qualcosa è bravo… Sapete che vi dico? Se continua così, quasi quasi cambio scuola.