Sanatio: due chiavi e una fede.

Iacta est alea. 1983

Sì, penso che il titolo possa incuriosire abbastanza…
Qualcuno sa cos’è una Sanatio? Pian piano lo spiegherò. Intanto, incomincio pubblicando la prima puntata di una storia che coinvolge due ragazzi di mia conoscenza.
A chi avrà la pazienza di aspettare le puntate successive verrà svelato il Valore (con la maiuscola!) del titolo. Buona lettura.

Dedicato alle due Principesse.

“Sanatio: due chiavi e una fede”
(puntata numero 1)

Chiara, da ragazzina, passava quasi tutto il tempo libero in parrocchia.

E continuò anche da grande. Non solo messe e cerimonie: partecipazione attiva.

Non si vergognava, quando, fazzolettone scout al collo, giocava in piazza coi lupetti, gridando a squarciagola coi più vivaci.

La domenica non si preoccupava troppo di vestire abiti “bon ton” per fare bella figura agli occhi delle signore impellicciate e profumate. Stava nella prima panca anche se portava le scarpe da tennis, con la certezza che ciò che importava veramente era l’interno, non l’involucro.

Ammirava san Francesco e la sua povertà. Aveva conosciuto ed apprezzato la serenità del movimento dei focolarini di Chiara Lubich. Si dava da fare, praticamente, dove c’era bisogno. La sua era una fede di ricerca. Comunque attiva, più che contemplativa.

Ma all’età di ventidue anni successe qualcosa: un po’ alla volta la sua frequentazione divenne più rada. Cominciò, con una scusa o l’altra, a defilarsi. Pian piano arrivò a non farsi vedere più in parrocchia.

Cos’era successo? Semplice: si era innamorata.

Davide, quattro anni più di lei, non era dello stesso ambiente e in parrocchia pochi ebbero modo di conoscerlo. Chiara non lo presentò neppure all’amico parroco.

La storia politica di Davide lo inquadrava in una ben precisa area di pensiero. Nella sua città era conosciuto per i trascorsi giovanili nelle file della contestazione studentesca di sinistra. Per anni aveva vissuto l’esperienza anarchica (lui si definiva “libertario”), dalla quale si era allontanato da tempo per diversi motivi, ma che contraddistingueva sempre, in molti principi e valori, il suo modo di essere.

Una persona coerente con le sue idee, senza mezze misure e compromessi: questo piacque a Chiara più di tutto.

Sin dall’inizio il ragazzo non impedì mai a Chiara di continuare con gli impegni che lui, per la sua ideologia, però non condivideva. Tuttavia venne naturale che, un po’ alla volta, fosse lei ad adeguarsi al suo stile di vita.

Ad un certo punto Chiara arrivò a una scelta: stare con lui al cento per cento voleva dire lasciare l’ambiente della chiesa.

Era fatta così anche lei, che ci poteva fare? O tutto, o niente.

Anche ora. Certo, un difetto: gli accomodamenti non fanno per lei.

Quando andò nel Comune del suo paesino per le pubblicazioni del matrimonio, il sindaco comunista, che l’aveva vista fino a qualche mese prima sempre sul sagrato della chiesa, fece un salto così!

Non intendeva sposarsi al paese, perché nella città di Davide la cerimonia sarebbe stata più suggestiva, nel salone di rappresentanza del palazzo duecentesco del Comune. Voleva una bella cornice, per quella giornata irripetibile, anche se non sarebbe stata nella tradizione cattolica.

Il compagno Peppone tentò una proposta: “Se ti sposi qui, facciamo la cerimonia nel nuovo Palazzo del Turismo, di fronte alla chiesa. Lo inauguriamo col tuo matrimonio, dai!”

Sarebbe stato un bello smacco per quelli della parrocchia!

Naturalmente Chiara non accettò… Sotto sotto si sentiva in colpa verso il parroco, che le era stato vicino negli anni difficili dell’adolescenza. Inoltre, sarebbe stato molto imbarazzante. Non solo per il don Camillo della situazione, ma anche per lei e i familiari, che avrebbero comunque preferito un matrimonio nella norma.

Fu quindi il sindaco della grande città ad avere l’onore di unire i due liberi cittadini Davide e Chiara in un freddo pomeriggio d’inverno.

Eleganza stile anni quaranta. Mantello color tortora, cappellino nero con veletta a coprire il viso e volpe argentata sulla spalla, Chiara si sentiva una diva. Nella piazza più bella della città, tutta in ghingheri andava incontro sorridendo al suo ragazzo che, per una volta in cravatta e doppiopetto blu, l’aspettava porgendole un bouquet di boccioli di rosa.

Tanti flash dell’amico fotografo sullo scambio di fedi e di impegni.

Facendo firmare il registro dei matrimoni il primo cittadino, fasciato nel nastro tricolore, diede lettura degli articoli del diritto di famiglia che vincolano i coniugi… Naturalmente, senza alcuna benedizione.

Strette di mano e auguri personali accompagnati dai doni di rito: rose rosse per la signora e stampe storiche per il coniuge.

La classica fotografia sotto il gonfalone della città ed il suo motto, di romana memoria, ben si addiceva all’avvenimento: “Iacta est alea”.

Come dire: firme definitive, non si torna indietro, Chiara!

– continua alla prossima puntata –

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