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La fantastica storia di Talacia e del suo orologio gigante.

Venerdì 20 luglio 2012, alle 21.30 in piazza Pascoli a Viserba, l’attrice/cantante Liana Mussoni, accompagnata dalle musiche di Tiziano Paganelli e con intermezzi di Mario Bianchini, porterà in scena “L’orologio di Talacia”.
Lo spettacolo racconta la curiosa storia di Gennaro Angelini, detto “Talacia” (n. 1874 – m.1956) contadino semianalfabeta e genio inventore. Nell’arco di più di trent’anni costruì una meravigliosa “macchina del tempo”, che suscitò l’interesse anche di giornalisti stranieri e su cui l’Istituto Luce girò un documentario.
L’orologio di Talacia, lungo sei metri e perfettamente funzionante, era costituito da ingranaggi ricavati da pezzi di legno, arcolai, catene di bicicletta, corde. Segnava minuti primi e secondi, quarti, mezzore, ore, giorni, settimane, mesi, stagioni, anni ordinari e bisestili, fasi lunari, costellazioni, lustri, decenni, secoli, millenni.
La fantastica creatura, crescendo un pezzo alla volta, stava appesa alla stalla, convivendo col placido ruminare dei buoi, nella casa colonica a fianco della chiesa di San Martino in Riparotta, il borgo sulla via Emilia da cui ha avuto origine Viserba e da cui dista un paio di chilometri.
Liana Mussoni nel suo spettacolo sa evocare l’atmosfera di quei tempi e la magia della storia di questo geniale inventore naif.

Lo spettacolo è organizzato dall’associazione “Ippocampo Viserba” (Laboratorio Urbano della Memoria), con la collaborazione di Playa Tamarindo, alcuni alberghi della zona, Comitato Turistico, parrocchia di Viserba Mare.  
L’ingresso è libero.

Per il pomeriggio di domenica 22 luglio, dalle 16 alle 19, i soci di Ippocampo organizzano una visita guidata alla chiesa di San Martino in Riparotta, dove il parroco don Danilo, con la collaborazione del Met (Museo degli Usi e dei Costumi della gente di Romagna) di Santarcangelo è riuscito a riportare l’orologio che per diverse ragioni era stato smontato e trasferito in altra sede.

Per le visite “libere”, la sagrestia è aperta ogni domenica mattina.
Per eventuali prenotazioni tel. 0541 740602.

Quidi seguito, un bell’articolo di Marzia Mecozzi (dal sito di Ippocampo Viserba).

L’orologio di Talacia. La ricerca del Tempo nella stalla di Angelini Continua a leggere

Esterina e i salvagente fatti con le zucche. A Viserba li inventò lei.

Dalla mitica Esterina fino a Patrizia: il filo che lega queste due donne romagnole è lungo quasi novant’anni e passa attraverso due secoli e cambiamenti di stili di vita epocali.

Siamo sula spiaggia di Viserba, poco distante dal porticciolo turistico.

Il Bagno Pietro è targato col numero 37 e, come spesso succede da queste parti, con un nome maschile. Anche oggi il titolare ufficiale è Roberto Betti (figlio di Pietro e nipote di Esterina), che vede di buon occhio la continuità generazionale rappresentata dal dinamismo della giovane figlia di suo fratello Paolo.

“Patrizia negli ultimi anni ha dato una svolta originale alla nostra offerta – spiega lo zio – Finiti i tempi della formula ‘ombrellone e sdraio’, ha saputo inventare numerose attività e stimoli che interessano e coinvolgono grandi e piccoli. Una miniera di idee, com’era mia nonna Esterina, che negli anni Trenta, rimasta vedova in giovane età, rilevò la spiaggia e la gestì insieme al figlio Pietro: una vera generalessa, tipica arzdora romagnola. Inventò i primi salvagente visti a Viserba, che affittava anche ai turisti degli altri bagni.”

Ma come potevano essere i salvagente in un’epoca senza plastica?

“Donna dalle mille risorse, Esterina nel suo orto coltivava quelle zucche che, crescendo, prendono la forma di pera. Quand’erano della misura giusta le faceva seccare, poi le legava accoppiandole con una corda lunga abbastanza per girare attorno alla nuca e passare sotto le ascelle. Si nuotava restando a galla: l’uovo di Colombo, con tanto di copyright!”

Nelle foto di famiglia la bisnonna appare col grembiule bianco e la parananza. Patrizia, invece, gira per la spiaggia in bikini sfoggiando un fisico da atleta e un’abbronzatura invidiabile. Una ragazza di oggi, animatrice e insegnante di ginnastica, tanti anni con gli scout e nei centri estivi.

“Ogni stagione propongo ai piccoli turisti un tema su cui cucio tutte le attività di animazione quotidiane: ‘il giro del mondo in 80 giorni’,  ‘le Mille e una notte’, ‘il circo’. Quest’anno facciamo finta di essere sull’Olimpo. I ragazzi si trasformano in divinità greche. Per la festa di ferragosto coinvolgo anche gli adulti. Dovreste vederli! Mamme e papà, ma anche arzilli nonnetti, stanno già discutendo e litigando su chi sarà Venere e chi Apollo!”

Altra particolarità, sempre coordinata da Patrizia, è il gemellaggio con la Fondazione Cetacea di Riccione. “Un’esperienza di scuola in senso lato, dove i bambini imparano senza quasi accorgersene. Ogni 15 giorni una biologa della Fondazione spiega ai ragazzi l’ecosistema dell’Adriatico, mostrando immagini e reperti. Cosa piace di più? Il carapace della tartaruga, la testa del delfino, i denti del capodoglio. Sul cavalluccio marino, poi, nasce qualche conflitto ‘di genere’: soprattutto i maschietti si stupiscono quando imparano che è l’ippocampo maschio a tenere in corpo le uova, liberando così la femmina dall’incombenza.”

Che sia il timore di un futuro simile? Si sa mai, gli scherzi dell’evoluzione naturale…

 

articolo pubblicato (con qualche taglio) su Il Resto del Carlino del 14 luglio 2012 (pag. 11 del supplemento Estate)

Visto, si stampi: “i còmbri” son maturi

ESTERNO GIORNO. VISERBA.

Un caldissimo pomeriggio d’inizio estate. Due giovani collaboratori della nuova Frutteria “Da chi Zuclòn”, seduti all’ombra a uno dei tavolini del giardino, stanno meditando dubbiosi di fronte ad un grande cartello. Pennarello in mano, vedono passare Cristella e non perdono l’occasione.

“Cri – chiama Angelo – ci puoi dare una mano?”

Come rifiutare la richiesta d’aiuto di un bel giovanotto? Ma che vorrà mai?

“Vorremmo scrivere una cosa in dialetto, ma non siamo sicuri”.

“Proviamo. Com’è la frase in italiano?”

“Abbiamo i cocomeri più buoni”.

Beh, la prima risposta è tutta cesenate: “Avém i combàr piò bòn”.

E, invece, Cristella ha dimenticato, per un attimo, che qui siamo a Viserba e la lingua della mamma va sostituita con quella, acquisita, della suocera. ‘Còmbar’ u’n và bén, suona un po’ stonato.

Seduta poco distante, che si gode uno dei freschi e colorati aperitivi della Frutteria, c’è a portata di voce la mamma del Re Consorte, Malvina. Riminese doc, la bionda signora conferma ad Angelo: “us dìs avém i còmbri piò bòn!

Visto, si stampi! Il cartello ora fa la sua bella figura di fronte al locale e richiama i passanti accaldati. Perché, con ‘sti caldi… una bella fetta ad còmbri l’è propri quèl cu’i vò.

Ma, vogliamo approfondire l’argomento, in stile Cristella? Continua a leggere

Bon dé, bon an, ch’avìva dla furtona par tot l’an!

A grande richiesta… ri-ecco a voi le antiche usanze romagnole del 31 dicembre e del primo gennaio.
Da notare, nelle ultime righe di questo post, l’origine della poca considerazione per le donne che esiste tuttora.

Vabbè, Buon Anno a tutti. Alle donne in particolare!

Testo tratto da Gianni Quondamatteo e Giuseppe Bellosi, Romagna Civiltà. Vol. I – Cultura contadina e marinara, Grafiche Galeati Imola, 1977.

L’ultimo giorno dell’anno le donne si guardavano  dal lasciare incompiuto un lavoro già intrapreso. Si traevano ora gli auspici per l’anno venturo. Così ne descrive uno il Bagli: L’ultimo giorno dell’anno prendono tre fagioli. Ne tengono uno colla buccia, ne pelano un altro a metà, e l’ultimo per intero, poi lo chiudono in un cartoccio, e li mettono la sera sotto il capezzale del capo di casa. La mattina del primo giorno dell’anno riprendono  il cartoccio, poi fanno estrarre da un bambino uno dei tre fagioli. Se esce quello colla buccia è segno di fortuna per tutto l’anno, se quello con metà buccia significa mediocre fortuna, se esce quello senza buccia affatto significa disgrazia”.

Altri auspici si traevano il primo dell’anno con questo gioco, pure raccolto dal Bagli:

“Nascondono una chiave, dell’acqua, della cenere e un anello; poi quegli che ha nascosto la roba manda gli altri a cercarla, e chi trova la chiave  sarà fortunato tutto l’anno; chi l’anello dovrà farsi lo sposo nel corso dell’anno; chi trova l’acqua piangerà tutto l’anno; e finalmente chi trova la cenere dovrà morire”:

E sempre in tema di pronostici scriveva il Placucci:

“Sono vigilanti li contadini, tanto uomini che donne, nel sortire di casa nel primo giorno dell’anno a rimarcare il soggetto che incontrano per il primo, desumendo da tale incontro un preludio o fausto o funesto per le vicende dell’anno intero.

– Se incontrano un povero, è un augurio cattivo.

– Se incontrano un benestante, e dabbene, presagisce un buon anno.

– Incontrandosi in un vecchio significa morte di qualcuno della famiglia entro l’anno; quale presagio si ha incontrandosi in un prete da uomini, fanciulli, o donne maritate.

– All’opposto, se una giovane nubile, od una vedova s’incontra in un prete, è segno che in quell’anno deve unirsi in matrimonio.”

Oltre che trarre auspici si cercava di propiziarsi a Capodanno l’anno nuovo, iniziandolo bene. Si mangiava l’uva appassita bianca perché portava denari, si facevano un po’ tutti i lavori soliti perché poi riuscissero bene nel corso dell’anno.

Il Placucci ricorda anche l’usanza di dare il buon anno e afferma che al suo tempo questo augurio si costumava ‘solo fra fra gli anziani ed i capi delle ville’, i quali, incontrandosi tra loro, dicevano ‘Bon dé, bon an‘ e si rispondevano a vicenda ‘Dì u z’e cunzéda‘ (Dio ce lo conceda).

Ma ancora fino a pochi anni fa nelle nostre campagne i bambini maschi usavano portare il buon anno a tutte le famiglie dei propri dintorni ricevendo in cambio denari e zuccherini: cominciavano a far dell’alba, spesso a gruppi, per poter visitare il maggior numero di case possibile e racimolare un gruzzolo consistente.

E l’augurio veniva espresso con una strofetta, diversa a secondo delle località. Eccone una raccolta nella Romagna bassa:

Bon dé, bon an, bona furtona,

int la stala, int e’ stalèt,

int la bisaca de curpèt.

(Buon giorno, buon anno, buona fortuna, nella stalla e nello stabbiuolo, nella tasca del corpetto).

Non mancavano i versi ai contadini oppressi dal padrone:

Bon dé, bon an,

ch’avìva dla furtona par tot l’an

ch’aviva de grèn, de furmintòn,

e pu ch’avìva ch’uv mura e padron!

(Buon giorno, buon anno, abbiate della fortuna per tutto l’anno, abbiate del grano, del formentone, e poi vi muoia il padrone!).

Se poi non ricevevano nulla in cambio delle loro prestazioni, i bambini si allontanavano gridando:

Bon dé, bon an,

ch’uv mura la sumara int e’ capàn!

(Buon giorno, buon anno, che vi muoia la somara nel capanno!).

Abbiamo detto che soltanto i maschietti portavano il buon anno. Infatti le donne evitavano, il primo gennaio, d’andare in casa d’altri, perché avrebbero portato disgrazia e quindi, per prevenire un cattivo inizio dell’anno che avrebbe avuto ripercussioni malefiche su tutto il suo corso, non sarebbero state accolte.

Questa usanza è tuttora osservata presso molte famiglie.

Scanzonata filosofia riminese. “Par piasér: ch’la m ne màza un chél!”

INTERNO GIORNO

Viserba di Rimini. Pomeriggio d’autunno nella sala d’aspetto del medico di famiglia. Stanza in ombra, dal soffitto basso. Aria stantia e pesante. Scomode seggiole addossate ai muri. Scaffaletto con vecchie riviste.

Tutti i posti occupati: tre o quattro signore di mezza età, due anziani con la cartella delle lastre in mano, un ragazzo di colore, un rappresentante del farmaco con la borsa di pelle d’ordinanza.

Cristella entra. Continua a leggere