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Garbinitudine

“Andiamo dove ci porta il garbino”, scriveva Silvano Cardellini in “Una botta d’orgoglio”.

Era il suo modo per descrivere il carattere dei riminesi, mutevole come il vento che contraddistingue questa prima giornata di marzo.

Da Cesenatico mio fratello Domenico, marinaio diportista, mi conferma che trattasi di garbino-libeccio. Qui a Viserba Raimondo, lampedusano trapiantato in Romagna, guarda fuori e sentenzia: “Non è proprio garbino. Arriva da là, quindi è una via di mezzo fra scirocco e libeccio.”

“Là”, dalla prospettiva di casa nostra, è l’entroterra riminese verso il Monte Titano (o Repubblica di San Marino).

Rosa dei venti. Clicca per ingrandire

Avere il garbino”, da queste parti, è segno di irrequietezza. Un nervosismo generale che spesso si legge sui volti, che si sente in strada nel traffico un po’ più caotico del solito o che giustifica atteggiamenti strani e scontrosi.

Quante volte, dopo una risposta un po’ scortese di un interlocutore, magari nel mio ufficio o in un negozio o al supermercato, minimizzo pensando: “Oz e’ tira pròpri e’ garbéin…” (Oggi, tira proprio il garbino…).

La descrizione più bella e completa della garbinitudine è di Gianni Quondamatteo. Cito direttamente dal suo Dizionario Romagnolo Ragionato.

Garbéin – garbino, libeccio.

E poiché proviene da sud-ovest, questo termine scaturisce dall’arabo garbì, ovvero occidentale, o garb, occidente. Tale autorevole origine si riverbera altresì nello spagnolo, nel provenzale e nel dalmatico (garbin).

E’ un vento caldo, afoso, che soffia a raffiche, quasi sempre precursore di pioggia.

Garbinàz, quand’è addirittura insopportabile.

E’ un vento che dà anche sui nervi, che il meteoropatico preavverte con una diffusa irrequietezza anche molte ore prima: a sént e’ garbéin (sento il garbino), si dice; e, quando soffia, a so ingarbinèd (sono ingarbinato).

L’ha e’ garbéin (ha il garbino), ha i nervi tesi.

E’ va se garbéin, di chi è di comportamento mutevole.

Fin che tira ste garbéin… (fin che tira questo garbino), fin che le cose stan così…

Poiché il garbino è vento mutevolissimo, incostante, così si dice di persona che cambi dea, di voltagabbana: t’è la faza cume e’ garbéin (hai la faccia come il garbino) o t’fé tòtt al fazi cume e’ garbéin (fai tutte le facce come il garbino).

In campagna: se garbéin e’ bòl e’ véin (col garbino bolle il vino) e con questo vento non si travasa il vino e non si “smette” il baghino (il maiale).

Foriero, abbiamo detto, di tempo cattivo: siròc e’ garbéin, dicono infatti i marinai. D’estate, soprattutto, il garbino precede lo scirocco e l’immancabile pioggia. Di qui il modo di dire campagnolo: e’ garbéin en mèt sò e’ lèt a maréina (il garbino non mette su il letto in mare), non si ferma, cioè, ma ritorna indietro sotto forma d’altro vento e provoca guai; si dice anche adès e’ va zò e’ garbéin, l’è quand che torna indré! (adesso va giù il garbino, è quando torna indietro!).

Sempre in campagna, per chi ha i capelli in disordine, o gli abiti, si dice: l’è rufid cum per e’ garbéin (è arruffato che mi sembra il garbino).

Garbéin s-cèt (garbino schietto) o garbéin frèid (garbino “marcio”), quando non vi sono dubbi di sorta.

Finita la citazione di Quondamatteo, chiedo ora scusa ai lettori se abbasso il tono filosofico-antropologico di questo post e lo riporto alla pragmaticità tipica di una arzdòra romagnola quale sono: un aspetto positivo delle giornate di garbino, specialmente se capitano di sabato e di domenica (quando le donne che durante la settimana sono impegnate anche in lavori fuori casa si dedicano alle faccende casalinghe) è la possibilità di asciugare velocemente il bucato steso all’aperto.

Decisamente meglio di qualsiasi asciugatrice industriale…

Un webmaster da 30 e lode

Andare indietro col pensiero di ventidue anni…

Una signora non ancora ventottenne allatta la sua frugoletta nata alle otto del mattino all’Ospedale di Rimini.

Nel tardo pomeriggio di quel giorno c’era già il sole. Ma qualche ora prima, mentre Dora ed io eravamo impegnate nell’avventura più bella della nostra vita, fuori aveva iniziato a “sfruffolare” e in poco tempo la riviera era stata coperta da un sottile strato di neve.

Alla neomamma poco importava delle condizioni meteorologiche: tutta la sua attenzione era per Dora, la primogenita.

Dora appena nata, 28 febbraio 1986

Ne è passato, di tempo…

Quello di oggi, però, è un compleanno un po’ melanconico, causa lontananza.

La figlia, ormai cittadina europea a tutti gli effetti, ha trascorso la mattinata in volo, dalla Spagna a Ciampino, per poi fermarsi di nuovo a Roma, per gli studi all’Università di Tor Vergata.

E che può fare mamma per consolarsi della lontananza? Sfruttare il più possibile la collaborazione tecnica a distanza della piccola per il sito www.cristella.it, creato e gestito da questo preziosissimo webmaster personale!

Auguri da Rimini, webmaster romano. Ventidue anni con lode!

 


Si alza la nebbia e qualcosa è cambiato…

U j è na nèbia ch’l’as taja s’e’ curtèl (c’è una nebbia che si taglia col coltello).

Quante volte ho sentito questa frase, in casa mia o in giro per la Romagna! La nebbia di questi ultimi giorni, però, era da un pezzo che non la vedevamo. Quasi quasi ce n’eravamo dimenticati.

Ricordate la scena di Amarcord, col nonno di Titta che si perde nella nebbia e non s’accorge di trovarsi invece proprio di fronte a casa?

Ecco, in questi giorni Rimini è così come l’ha fotografata Fellini in quel quadro ovattato: colori sfumati, movimenti lenti, suoni lontani.

Da casa mia, specialmente verso sera e di notte, con la nebbia si sente il segnale del faro. Un fischio quasi familiare, che arriva di tanto in tanto. Questo che sento oggi proviene dal porto di Rimini. Del tutto simile a quello che sentivo nelle mie notti di ragazza, a Gatteo a Mare, proveniente però dal molo di Cesenatico. Sono passati venticinque anni, ho cambiato provincia di residenza, ma sempre “marinara” rimango.

Sabato mattina la coltre nebbiosa ha contribuito a coprire, ma solo per un paio d’ore, il disastro che stava avvenendo di fronte alla mia finestra e che sta cambiando la fisionomia di Viserba.

Non si vedeva nulla, ma si sentiva il rumore delle ruspe che sradicavano gli alberi e i rovi della vasta area incolta situata a monte della via Sacramora (la cosiddetta “falesia”), di fronte al polo scolastico.

A dire il vero la sorta di giungla che si era creata in decenni di abbandono non era il massimo: fino ad una ventina d’anni fa si riusciva ad inoltrarsi nei piccoli sentieri, fra i rovi, per raggiungere un gruppo di ciliegi, ormai inselvatichiti, che comunque regalavano i loro frutti a chiunque avesse il coraggio di arrampicarsi. Dalle fotografie prese dal satellite si riconoscono anche le stradine tracciate dai giovani che venivano a divertirsi con le loro moto da cross. E qui ricordo perfettamente l’epoca – quindici/venti anni fa – perché questi matti arrivavano a sgassare al massimo dei decibel proprio nella curva sotto alla mia camera da letto. Puntuali come orologi, svizzeri: all’ora del sonnellino delle mie bimbe e della sottoscritta.

Quindi ho pochi rimpianti sia per la giungla, sia per le moto. E poi, a dir la verità, sono sempre stata terrorizzata dall’idea delle bisce e dei topi che immaginavo nascondersi fra le erbacce e i rovi che vedevo di là dal mio cortile.

Però i rumori secchi e sinistri delle piante spezzate, che mi giungevano dalla nebbia, sabato mattina m’hanno fatto rabbrividire. Una strana sensazione, pensando “fa più rumore un albero che cade, di una foresta che cresce”.

Verso mezzogiorno la nebbia s’è poi alzata, come un sipario. E la prospettiva che mi era familiare da sempre era totalmente cambiata. i campi puliti, letteralmente rasati, fanno ora allargare lo sguardo fino alle case vicine e alla strada, prima nascoste.

Mi dovrò abituare: i lavori per la nuova strada e la grande rotonda sono già in fase avanzata e stanno procedendo velocemente.

Mi sa tanto che fra un po’, col traffico che arriverà, rimpiangerò i ragazzini che venivano a fare motocross sotto alle mie finestre…

Non rimpiangerò di certo la giungla, anche se una domanda mi sorge spontanea: ma con tutto questo sbancamento di terra e la distruzione delle piante, dove si saranno rifugiate le bisce e i topi?

Brrr… io in cantina mica ci torno!

Cercare (e trovare) un lavoro a Rimini e dintorni

Oggi parliamo di lavoro (senza sudare troppo, però!).

Come ho già scritto in più occasioni il primo lavoro di Cristella – quello che produce uno stipendio, per intenderci – è al Centro per l’impiego di Rimini. La scrittura e il giornalismo sono un innamoramento, un hobby: belli e appassionanti finché rimarranno tali.

L’esperienza quasi trentennale a contatto con migliaia e migliaia di persone alla ricerca di un lavoro mi porta ad avere una certa dimestichezza con l’ambiente e le relative dinamiche. Ormai riesco ad anticipare la domanda di chi si presenta al mio sportello, ad esempio, riconoscendo la tipologia della persona al primo sguardo o alle prime parole. Magari dall’accento o dal tipo di approccio.

Soprattutto in questo periodo dell’anno si ripete una scena già vista tante volte: tantissimi “cercatori”  (non solo giovani) che ho battezzato “i disoccupati con lo zainetto“. Giungono a Rimini, armi e bagagli al seguito, attirati dalla possibilità di trovare occupazione con facilità negli alberghi e nelle altre strutture turistiche. Molti hanno effettivamente delle potenzialità, magari perché con buone referenze e professionalità. Altri vagano proprio allo sbaraglio e rischiano di rimanere delusi.

Questi ultimi si riconoscono da quel troppo generico “cerco qualsiasi lavoro”, sottolineato dal pretenzioso “so far tutto” o dal chiarificatore “mi adatto, basta che ci sia anche l’alloggio gratis”.

Purtroppo non sono più i tempi, neppure in Riviera, di quando i posti disponibili superavano l’offerta. Oggi i disoccupati sono sempre più numerosi e, dall’altra parte, le strutture turistiche sono legate a periodi di attività più frammentati rispetto al passato, quando “la stagione” durava da Pasqua a ottobre.

Ecco allora i miei consigli.

Innanzitutto informarsi: in quasi tutte le città, spesso anche nei paesi più piccoli, esistono degli uffici che possono aiutare chi cerca un lavoro ed è disponibile a spostarsi. Di solito si chiamano “Informagiovani” (ma vengono utilizzati da persone di ogni età) e sono presso i Comuni. Nell’era di Internet innumerevoli offerte, non solo in Italia, sono a portata di clic. Basta trovare un Pc collegato alla rete.
Per quanto riguarda la nostra zona, ad esempio, tutte le offerte di lavoro sono pubblicate nel sito internet del Centro per l’impiego (www.riminimpiego.it), nella sezione Cercoffro, costantemente aggiornata.

Per il lavoro estivo nel settore turistico alberghiero, poi, da anni è attiva una banca-dati regionale, chiamata Autocandidatura, dove si possono visualizzare le offerte dei datori di lavoro di tutta la riviera romagnola: Lidi ferraresi, Lidi ravennati, Cervia-Milano Marittima, Cesenatico, Gatteo a Mare, Savignano Mare, San Mauro Mare, Bellaria-Igea Marina, Rimini, Riccione, Cattolica, Misano Adriatico.

Collegandosi al relativo link si possono selezionare le proposte in base alla qualifica, alla zona e ad altre caratteristiche. Io consiglio di guardarle tutte, le offerte, di non limitarsi a cercare, per esempio, solo i posti con alloggio a Rimini: tenete presente che Bellaria o Cesenatico sono vicinissime e in estate tutta la Riviera è simile a un’unica grande metropoli balneare.

Sempre nel sito dell’Autocandidatura, ciascun lavoratore può segnalare la propria disponibilità immettendo i dati personali e professionali. I Centri per l’impiego provvederanno a trasmettere i nominativi dei disponibili a tutti gli albergatori o imprenditori che ne faranno richiesta.

Vi assicuro che questo sistema funziona. E, particolare da non sottovalutare, è totalmente gratuito. Sia per chi cerca, sia per chi offre.

L’altro canale di ricerca/offerta molto usato a Rimini e dintorni è il giornale di annunci Il Fo. Anche questo consultabile on-line (all’indirizzo www.ilfoannunci.it).

Bene, mi pare di aver scritto un post professionale. Sperando che sia utile a qualche lettore, nello spirito delle linee-guida del mio blog: territorialità, quotidianità, interessi personali.

Sì, perché… “il lavoro è il mio lavoro“.

“Baraca e rénghi” o “viziosa crapula”?

In cerca di un’ispirazione per un nuovo post, viaggiando nella blogosfera, oggi mi sono imbattuta nell’ultimo contributo di Mitì Vigliero, la Placida Signora diventata famosa, diversi anni fa, per il bestseller “Lo stupidario della maturità” . Sotto il titolo “Placidi perché si dice”, Mitì spiega il detto “Non c’è trippa per gatti”. Mi si è accesa subito la lampadina, pensando al modo di dire tutto riminese “baraca e rénghi” (forse per via di quel gatto che dovrebbe essere goloso anche di pesce, oltre che di trippa).

Ricordavo di aver letto qualcosa in un libro del mio amico Tiziano Arlotti. Veloce ricerca nello scaffale romagnolo. Eccolo: Tutta colpa del barbiere, Panozzo Editore2004”.

“Fare baracca” – scrive Tiziano – è un modo di dire tutto riminese che significa: incontrarsi in un luogo fra amici, lasciarsi andare ai piaceri del cibo e del vino, conversare giudicando tutto e tutti con ironia, cantare, suonare, ballare, raccontare barzellette.”

E per rafforzare l’idea, “baraca e rénghi” o “baraca s’al rénghi”. E’ interessante il fatto che queste battute si usino anche fra i giovani che di solito non parlano in dialetto, ma che lo sentono parlare dai genitori e dai nonni.

Spiega Arlotti: “L’aringa, come è noto, è un pesce che si mangiava diffusamente nel periodo invernale (meglio se accompagnata si chevli) e che si addiceva particolarmente alle baraccate: costava poco ed era particolarmente salata e quindi ‘aiutava’ a bere. Anche le acciughe e le anciò erano particolarmente accette nelle osterie, ed i più accaniti le toglievano dal barattolo e se le mangiavano senza neppure pulirle dalla salamoia: le sbattevamo contro una gamba del tavolino o della sedia (i più alticci sul tacco dello zoccolo o dell’anfibio).”

Dal medesimo scaffale romagnolo della mia libreria occhieggia pure il “Dizionario Romagnolo Ragionato” di Gianni Quondamatteo. Che non si smentisce: anche per l’aringa dà una descrizione
che diventa un piccolo trattato folclorico e antropologico.

Rénga: – ittiol. aringa. E’ il pesce più importante dell’alimentazione umana, per le enormi quantità annualmente immesse sul mercato. Il suo habitat sono i mari settentrionali. Lunga 20-30 cm., la rénga è il distintivo della miseria: “cun na rénga, e’ magnèva una faméja”, dicevano i vecchi con una strana forma d’orgoglio. E’ sottinteso che quella famiglia mangiava, in ultima analisi, del gran pane. La rénga è anche il distintivo dei riminesi, in contrapposto alle poveracce (puràzi) dei riccionesi ed alle grosse cipolle (zvulùn) dei santarcangiolesi. Barili di aringhe, e lanci di aringhe, hanno qualche volta punteggiato gli incontri e le sconfitte patite dai riminesi nel campo dello sport.

L’è dura la rénga!” o anche “L’é cativa la rénga!”: così si apostrofa, a mo’ di scherno, chi ha patito una sconfitta o una delusione.

E alla voce baraca scrive: bagordo, festino, allegra riunione conviviale, confusione. Annota il Panzini: ‘il mangiare di molte persone insieme senza sobrietà e per viziosa crapula’. “Fé baraca”: far festa, in compagnia d’amici, e dandoci dentro nel bere e nel mangiare.

“Viziosa crapula”? Boh… Chi glielo spiega, ai miei concittadini, che quando festeggiano a “baraca e rénghi” secondo qualcuno stanno viziosamente crapulando?