Archivi annuali: 2008

Democrazia è anche servizio

Un abbraccio a tutti i lettori e ai commentatori, ai fedeli e ai nuovi.

Scusate la sospensione dei post, che sarà solo momentanea… Portate pazienza un paio di giorni: sono un po’ impegnata nei seggi elettorali di Viserba.

Sì, anche qui… Sono sempre nel mezzo, come il prezzemolo, oppure “cumé la zobia – come il giovedì”, oppure, sempre alla romagnola: “sono in tutti i brodetti”.

A presto!

E’ Bosch: le origini gambettolesi di Fellini

In diverse occasioni Federico Fellini ha dichiarato: “Quando penso a Gambettola mi viene sempre in mente Hieronymus Bosch”.

Un quadro di Bosch

Secondo me non faceva solo riferimento ai volti e ai corpi stonati dipinti dal pittore fiammingo, ma anche all’assonanza del nome con quello del paese di cui era originaria la famiglia del padre Urbano e dove il piccolo Federico passava le estati dell’infanzia, a casa della nonna.

Gambettola, paese dell’entroterra romagnolo situato sulla via Emilia a metà strada fra Savignano sul Rubicone e Cesena, in dialetto non esiste: si è infatti sempre chiamato “E’ Bosch” (il bosco) e così è nominato ancor oggi da chi si esprime in romagnolo.

Urbano Fellini, commerciante di generi alimentari, conobbe la giovane Ida Barbiani a Roma durante un viaggio di lavoro. Dopo varie peripezie i due si fidanzarono e andarono a vivere per un po’ di tempo a Gambettola, nella casa di via Soprarigossa. Solo successivamente la famigliola si trasferì a Rimini, dove Federico nacque. Si potrebbe ragionevolmente affermare, quindi, che Fellini è per metà romano e per metà “d’ E’ Bosch”, riminese d’adozione.

Perché questo discorso sulle origini del Maestro? Innanzitutto perché anche i miei genitori sono originari di quella zona. Il babbo era del 1917 e la mamma del 1923. Fellini del 1920. Mi piace pensare che da bambini, attorno agli anni Venti-Trenta, si siano anche incontrati durante quelle estati campagnole…

Ma uno stimolo mi viene anche dalla notizia, letta il 14 e il 15 marzo sul quotidiano Corriere Romagna, che la Giunta comunale di Gambettola ha deciso che la Casa Fellini, ormai pericolante e qualche anno fa salvata da una sicura demolizione, diventerà un museo del cinema, con annesso un Festival Internazionale del cinema all’aperto.

Casa Fellini a Gambettola

“Fellini è patrimonio dell’umanità – dicono a Gambettola – e la casa si trova di fianco al più grande parco verde dell’area Rubicone, con 24mila metri quadrati e alcuni servizi, Tra l’altro è adiacente anche al torrente Rigossa, che potrebbe diventare una tappa del percorso della ciclopedonale che da tempo si pensa di fare da mare a collina, diventando punto di riferimento per gli escursionisti a due ruote.”

Certo, ora entra in gioco il progetto e la volontà (leggasi: soldi) di portarlo a termine. Comunque, questa decisione del Comune di Gambettola è esemplare.

Se il paese natìo del padre di Fellini ha questi progetti, cosa dovrebbe fare, in proporzione, la “sua” Rimini? Ogni riferimento alle polemiche più o meno recenti sull’inadeguatezza, agli occhi del mondo, del Museo Fellini di via Oberdan, a Rimini, non è casuale (Gianfranco Angelucci docet). Qualche anno fa la diva Sharon Stone, invitata a Rimini per le Giornate del Pio Manzù, chiese di vedere il Museo Fellini. Arrivata a bordo di una limousine bianca, impiegò solo tre minuti a visitarlo.

“Tutto qua?”, il suo lapidario commento…

Citazione da “La mia Rimini”, di Federico Fellini:

A Gambettola, nell’entroterra romagnolo, ci andavo d’estate. Mia nonna teneva sempre un giunco nelle mani, col quale faceva fare agli uomini certi salti da cartone animato. Insomma, faceva filare gli uomini presi a giornata per lavorare il campo. La mattina si sentivano risatacce e un gran brusìo. Poi, davanti a lei che appariva, quegli uomini violenti assumevano un atteggiamento di rispetto, come in chiesa. La nonna, allora, distribuiva il caffelatte e si informava di tutto. Voleva sentire il fiato di Gnichéla, per scoprire se aveva bevuto la grappa: e questi rideva, dava gomitate al vicino, per il pudore, diventava un bambino.

Mia nonna era come le altre donne romagnole. Una di queste, tutte le sere, andava all’osteria a prendere il marito ubriaco e lo caricava sopra una carriola per condurlo a casa (scena vista nel film I clowns). Lui si chiamava Ciapalòs, che non è un nome greco, ma vuol dire “Prendi l’osso”. Una sera, l’uomo se ne stava con le gambe penzoloni fuori dalla carriola trascinata dalla moglie, in uno stato di beata mortificazione, dopo aver sopportato il dileggio generale. Quella sera, io incontrai gli occhi dell’uomo, sotto il cappellaccio. (…)

Un giorno mi piacerebbe fare un film sui contadini romagnoli: un western senza revolverate, intitolato “Osciadlamadona”. Una bestemmia: ma, come suono, è più bello di “Rasciamon”.

Questi riminesi…. buoni in graticola, come i sipuléin

“… una sorta di razzismo che in Liguria c’è e c’è sempre stato, anche se ora è un po’ più latente, quello tra i rivieraschi e i “muntagnin” i montanari, anche se qui da noi non sono proprio montagne, ma alte colline. Chi veniva dalla campagna era come dire, il pollo di turno, il contadino, il sempliciotto, quello di un’altra era, non faceva parte della città, e difficilmente se ne sarebbe integrato.”

Prendo spunto da queste righe scritte da Luca, amico blogger ligure (“Mi Arrangio”), per raccontare di seppiolini e cipolloni. Come dire: anche da questa parte, sull’Adriatico, è sempre esistita un po’ di maretta fra rivieraschi e campagnoli.

Per gli abitanti del nostro entroterra (Santarcangelo, San Marino e dintorni: anche qui colline, più che montagne) i cittadini di Rimini erano spregiativamente chiamati sipuléin (o scipuléin), cioè “seppiolini”.

“Bollati con questa metafora, centrandone argutamente, un po’ per dileggio, un po’ per invidia, il fisico molliccio e pallido delle seppie, però tenace e infido per quelle lingue non meno insidiose dei tentacoli; il temperamento tutto di testa di quegli imbroglioncelli (ovvero faquajoun), lesti a provocare e subito a sfuggire dietro torbide cortine di verbosità frastornante; il modo di vivere complicato, incomprensibile per la lineare solarità dei parrocchiani di campagna. Comunque gustosi, se fatti in graticola o padella… i seppiolini, naturalmente! (così scrive Sergio Ceccarelli nell’introduzione al libro “I Scipulein” di Enzo Fiorentini, ed. Il Ponte 1999).

Zvuloun (cipollone) è invece il cittadino santarcangiolese per quello di Rimini. Il riferimento diretto è di sicuro alle ottime cipolle che in questo territorio vengono coltivate.

Scrive Quondamatteo a proposito di questa diatriba fra confinanti in terra di Romagna (dal Dizionario Romagnolo Ragionato):

“Tutto sommato, non si sa bene dove sia l’ingiuria; uno spiedino di sipuléin cotti a regola d’arte sulla brace e un padellone di zvulùn al forno sono due delizie che stanno alla pari, e fortunati coloro che ancor oggi sono in grado di godersele.”

A parte l’aspetto culinario, rileggendo la descrizione del carattere dei riminesi fatta dal professor Ceccarelli e riportata qui sopra, penso ai nostri amministratori e alle frequenti polemiche che pubblicano i giornali locali. Non si può negare che i nostri sipuléin, col loro inchiostro, siano “lesti a provocare e subito a sfuggire dietro torbide cortine di verbosità frastornante…”

Ma forse, in questo, tutto il mondo è paese: l’homo politicus è molto sipuléin...

Stress, stress, stress… Meglio rallentare, dai!

Appena tornata dall’ufficio.

Una giornata come tante, neanche troppo stressante. Nella media, potrei definirla.

Gente che chiede. Gente a cui ho risposto (o almeno ci ho provato).
Quelli che seguono sono solo alcuni dei dialoghi che ho instaurato oggi (a cui vanno aggiunte decine di telefonate dello stesso tenore), col cervello ormai allenato a… saltare di palo in frasca.
Al prossimo che mi chiede perché Cristella è stressata, lo invito un paio d’ore alla mia scrivania.

  • Vengo da Belluno e cerco un lavoro qualsiasi, ma con l’alloggio.
  • Mi spiega perché tutti vogliono assumere apprendisti con esperienza?
  • Come? A Rimini non ci sono offerte di lavoro in agricoltura?
  • Dove si va per le dimissioni volontarie?
  • Dov’è finito l’ufficio Cosap?
  • Ci sarebbe mica un corso per amministratori di condominio?
  • Vorrei fare l’insegnante di sostegno nelle scuole elementari. Ci vuole la laurea?
  • Quale autobus prendo per andare all’Inps?
  • Ma posso fare la bidella anche se lavoro part-time nell’albergo di mio marito?
  • Signora, ma per quell’offerta da necroforo-necroscopo quali requisiti ha detto che ci vogliono? (la mia risposta: “cuore, stomaco e fegato”).
  • Voglio iscrivermi all’albo dei fisioterapisti…
  • Ci sono offerte di lavoro per il Canada? E sulle navi da crociera?
  • Non so leggere, come faccio a consultare le bacheche? Dica, che lavoro cerca? Il cameriere? Ma come se la potrà cavare, poi, con le ordinazioni dei clienti, se non sa neppure leggere?

Capite ora perché, ogni volta che arrivo a metà settimana, penso “non vedo l’ora che arrivi venerdì…”
Ma poi mi chiedo anche “ma perché tanta fretta, Cri? non ti rendi conto che venerdì sarai già più vecchia? non sarebbe meglio godersi l’oggi?”
E infatti, ora che ho buttato giù questo sfogo post-ufficio, vado a rileggermi – con la dovuta calma – il mio rallentatore personale: un brano tratto da un libro di cui non ricordo il titolo, che dice il vero.

La via è la vita
Voler tenacemente raggiungere qualcosa
significa dirigersi verso l’obiettivo per la via più breve,
senza guardare né a destra né a sinistra,
senza fermarsi né tornare indietro.

In questo modo si raggiunge l’obiettivo,
ma non si notano i fiori lungo la strada,
non si vedono le vie laterali che forse
potrebbero avere qualcosa da offrire,
non ci si ferma a godersi il paesaggio.
Ma si procede, ciechi, gli occhi fissi alla meta.

Il cammino è la vita reale.
O, come dice un proverbio cinese,
“La via è la vita”.

Visto che ci sono, propongo anche la ri-lettura (per me e per voi) del post “Férmat, pataca!”
Av salut!

Ma quale Nutella! Nei cassoni ci vanno le rosole!

Innanzitutto, leggete questa definizione scientifica della pianta di Papaver rhoeas (rosolaccio) che ho trovato in un libro di botanica. Ditemi se in alcuni passaggi non fa venire in mente qualcosa che ha a che fare con il sesso (della serie: le api che impollinano i fiorellini… eccetera eccetera).

“Pianta annua con una radice biancastra a fittone, da cui partono diverse radichette laterali; i fusti, alti fino a 80 cm, sono coperti da lunghi peli setolosi. Le foglie basali, che formano una fitta rosetta, sono pennato- o bipennatosette, hanno contorno lanceolato o ellittico-allungato, margine dentato, apice acuto, base che si restringe un lungo picciolo; le foglie del fusto sono più semplici, sessili, non amplessicauli; tutte le foglie sono coperte da peli setosi e morbidi, i fiori sono solitari, con lungo peduncolo, calice caduco composto da 2 sepali, corolla con 4 petali rosso vivo. Il frutto è una capsula ovale, oblunga contenente numerosi semi nero-brunastri.”

Ebbene, dovete sapere che le rosette delle foglie basali del papavero, pennato o bipennatosette che dir si voglia, in Romagna sono meglio conosciute come ròsli (rosole), pianta mangereccia che si raccoglie nei campi proprio in questo periodo.

Le rosole entrano di diritto, quasi una primogenitura, nei cassoni, le piade ripiegate e imbottite da crude che fino a qualche anno fa erano la povera cena di molte famiglie e che oggi occhieggiano sui banconi dei chioschi e dei negozi delle piadinare.

Ora va di moda il cassone con la Nutella, quello con patate e salsiccia, mozzarella e pomodoro o stracchino e rucola… Ma il primo e vero cassone era unicamente verde, riempito con le erbe racimolate nei campi dalle brave arzdore: radicchietti, scarpigni e, specialmente in primavera, “al ròsli”.

Quest’ampia premessa serve ad introdurre il mio post primaveril-romagnolo: ebbene sì, questa sera ho cenato con un bel cassone con le rosole. Non acquistato al negozio, ma completamente autoprodotto.

La prima fase è la raccolta nel campo: durante una gita nel vicino Montefeltro, qualche domenica fa, ho individuato una sola rosola (avvenimento documentato da questa fotografia scattata dall’amica Valeria Piccari, che ringrazio per la collaborazione).

Ho trovato una rosola! Scatta la foto, dai!

Quindi, come fanno i pescatori che non vogliono tornare a casa a paniere vuoto e si fermano in pescheria, ho rimediato questa mattina, acquistando un chilo di rosole dal fidato fruttarolo poeta, al mercatino di Viserba.

Dopo averle pulite, lavate e scolate, le ho tritate finemente, salate e messe a cuocere brevemente in una larga padella con un filo d’olio e uno spicchio di aglio. Poi le ho strizzate bene per far perdere il liquido in eccesso. Nel frattempo ho preparato l’impasto della piada (ingredienti per 4 cassoni: ½ chilo di farina, un cucchiaino di sale, ½ bicchiere di olio extravergine di oliva, acqua tiepida q.b., un pizzico di bicarbonato). Ho ricavato 4 pagnottine che ho poi steso, abbastanza sottili, col matterello.

Le pagnottine pronte per essere stese

Ho quindi appoggiato su ogni piada un po’ di rosole, coprendo la metà della superficie; ripiegato in due e chiuso i bordi schiacciandoli con i rebbi di una forchetta. Sul testo (la piastra-teglia) caldissimo, ho poi cotto i cassoni, rigirandoli con attenzione, aiutandomi con un grande coltello a lama piatta.

cassone aperto

cassone chiuso, pronto per essere cotto sul testo

Le fotografie, a parte la prima, non sono delle migliori, sorry, ma i cassoni di Cristella – parola di principe consorte – sono venuti abbastanza buoni.

“Si può sempre migliorare”…

Eventualmente, la prossima volta, li vado a comprare già pronti: bisognerà pur far lavorare anche le nostre brave piadinare, no?