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I cappelletti? Un rito sacro.

Non è Natale senza cappelletti.

E’ tradizione, in Romagna, che la vigilia di Natale la famiglia si ritrovi per preparare questo tipo di pasta. Ognuno fa qualcosa. E, come succede sempre con le preparazioni tipiche, le ricette, seppur simili, sono differenti da famiglia in famiglia.

Quelli che fa mia suocera, ad esempio, sono i cappelletti della Romagna del sud, col ripieno di carne macinata e formaggio grattugiato, più somiglianti ai tortellini bolognesi.

Quelli della mia infanzia, invece, sono più tipici della zona di Cesena e del Rubicone: più morbidi, col ripieno di formaggi, a cui si aggiunge solo una piccola parte di carne (solitamente petto di cappone). Sono i cappelletti della mia mamma, che li faceva seguendo la ricetta di Pellegrino Artusi.

Il mio “Buon Natale” ai lettori passa quindi attraverso questo piatto della tradizione, così come lo racconta il gastronomo di Forlimpopoli.
Peccato che attraverso Internet non si possano ancora inviare profumi e sapori. Chissà, forse in un futuro neanche tanto lontano questo sarà possibile…

Intanto, godetevi la lettura in “stile Artusi”.
cappelletti
Da “La Scienza in Cucina e l’Arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi

Ricetta n. 7 – CAPPELLETTI ALL’USO DI ROMAGNA
Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco.
Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180.
Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta.
Parmigiano grattato, grammi 30.
Uova, uno intero e un rosso.
Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace.
Un pizzico di sale.
Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera.
Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato. Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito.
Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine.

Passatelli: profumo della memoria

Il ferro dei passatelli

 

 

 

 

 

 

 

 

“Meraviglia da non perdere – scrive Michele Marziani nel suo libro “La cucina riminese tra terra e mare” (Panozzo Editore Rimini 2005) – sono i passatelli, sorta di meravigliosi vermetti a base di pangrattato, uova, parmigiano, noce moscata e scorzetta di limone. Una fantastica minestra dei giorni di festa – si mangiavano tradizionalmente a Pasqua nel riminese e nel giorno dell’Epifania in Valconca – da gustare rigorosamente in brodo. Stupendi anche col brodo di pesce fatto con gli umili paganelli dell’Adriatico. Oggi sono numerose le versioni asciutte che si incontrano nella ristorazione. (…)
Chi ha avuto la fortuna di essere bambino in una famiglia dove i passatelli erano di casa, la memoria la conserva nel naso, perché il passatello è sentore di buono, di formaggio, di noce moscata, di limone che vaga nell’aria mentre bolle il brodo. Ma quello che ancor più ci colpiva – e colpisce – l’immaginario infantile è il ferro per passatelli, una sorta di schiumarola con i manici che serve per realizzare i sottili vermicelli d’impasto profumato. Un oggetto oscuro, misterioso, del quale è difficile comprendere l’uso se non vedendolo utilizzare. E le cucine, un tempo, si dividevano tra quelle dotate dell’attrezzo in questione e quelle di chi, tapino, s’arrangiava con lo schiacciapatate, fino ad almeno un decennio fa in dotazione in tutte le famiglie. Oggi il ferro per passatelli fa parte degli oggetti della memoria, del modernariato rurale. Un po’ come le teglie d’argilla per cuocere la piada.”

In effetti, anch’io sono una di quelle arzdore tapine che non sanno usare il vecchio ferro (che comunque è appeso in bella mostra alla parete della cucina) e che si arrangiano col passapatate.

La ricetta più usata, a casa mia, è col brodo di cappone o gallina, come da stretta tradizione, ma qualche volta ho provato, con successo, il brodo di pesce.

Prima di trascrivere la ricetta, vi segnalo un video di Youtube dove potete ammirare la vera “arte romagnola del passatello” così come la propone un albergo di Riccione.

Buon appetito!

Passatelli romagnoli

Ingredienti

  • 125 grammi di pane grattugiato (di tipo comune)
  • 1 cucchiaio di farina
  • scorza grattugiata di mezzo limone
  • 200 grammi di Parmigiano Reggiano grattugiato
  • un tuorlo d’uovo
  • due uova intere
  • un pizzico di noce moscata grattugiata
  • un pizzico di sale

Preparazione
Si mescolano tutti gli ingredienti fino ad ottenere una palla omogenea e compatta. La si lascia riposare anche un’oretta. Quando il brodo bolle, con l’apposito attrezzo di formano i passatelli, che vanno fatti cadere direttamente nella pentola.
Sono pronti quando vengono a galla.
Ottimi anche riscaldati, il giorno dopo.

Ehi, bimba bella, sorridi con il clown!

La saletta di “transito” fra il tunnel della risonanza magnetica e lo spogliatoio viene chiusa da una discreta tenda. Cristella è in “fase di compensazione” con l’ago della flebo infilato nel braccio. La poltrona è comoda, il liquido scende goccia a goccia per andare a ripulire i reni dai residui del contrasto che qualche minuto prima l’ha riscaldata…

L’infermiera si scusa: “C’è un altra paziente. Fra un po’ riapro.” 

Ma, che strano, sbirciando da sotto la tenda, Cristella vede passare una barella spinta da qualcuno che indossa incredibili scarpe taglia 58 con pennacchi colorati e ammennicoli vari.

La curiosità vince: spostando un po’ lo sguardo, ecco qualcuno che assomiglia più a un pagliaccio che a un dottore (in senso vero, stavolta, non metaforico!).

Il camice è bianco, sì (un po’ di “dignità” va mantenuta, giusto?), ma addobbato con disegni e pinzillacchere di tutti i colori. Le mani sono coperte da guanti tutti strambi. In testa, un cappello a tese larghe e decisamente originale, con antenne che si muovono e suonano. Il volto è dipinto col sorriso rosso e gli occhi gialli e blu. I capelli (o la parrucca?) sono acconciati in bellissime treccine alla Pippi Calzelunghe. 

All’orecchio di Cristella giunge solo un piccolo lamento della bimba. Poi, solo discrete voci di adulti.

L’ anestesia totale (obbligatoria per un bimbo di un anno o poco più) comincia a fare il suo effetto.

La dottoressa-clown ha fatto la prima parte del suo “lavoro”: accompagnare la bimba dalla sua stanzetta all’antro tenebroso della Risonanza Magnetica facendo in modo che il tragitto fosse sereno e spensierato.

Adesso inizia la seconda parte, non meno impegnativa: tenere compagnia alla giovane mamma che, in sala d’aspetto, tortura l’orsacchiotto della figlia pensando alla sua bimba che è di là, da sola, bombardata dalle onde del tam-ta-tatam

Auguri alla piccola. Un abbraccio alla sua mamma. Tantissimi complimenti alla dottoressa Patrizia Cenni dell’Ospedale di Ravenna per il progetto dei “Sorrisi in corsia”.

T’a t arcòrd la Manècia?

A Gatteo a Mare, qualche anno fa… Sè, c’a m arcòrd!

“Burdél, l’ariva la Manècia!”.
S’e’ masgòt ancòura in bòca a curéma tòt s’la strèda. Mé, la Manuela ad Nicio, i fiùl d’i Zàqual, la Rita ad Pellegrino.
La dménga dòp mezdé l’éra l’onica vòlta c’a putéma cumprè d’al luvarì.
E’ bà u s avéva dè un pò ad suldéin e nòun a aspitéma la Manècia s’e’ sù carèt pin ad ròbi bòni. L’éra una avcéina c’l a faséiva e’ zìr d’e’ paiòis cminzénd pròpri da la nòstra strèda. Tòt al dménghi.
A la badéma: a faséma a gara a chi la l’avdéiva par préim vnì zò pr’e’ cantòun ad Mighèn.
Préima ad tòt u’s avdéiva e’ sù carèt ad légn. E dòp lì c’l’al chaichèva, sémpra s’e’ sù fazulèt t’la tèsta.
U m pè c’l’a fòs sèmpra instéida ad scòur, sa di gràn sutanòun e la paranìnza gréìsa.
Par nòun l’éra precéisa m’a la Befana c’la pòrta i righèl m’i burdél bòn.
Ac fata sugeziòun c’avéma par la Manècia! Guai, s’a faséma malàn!
“Oun a la vòlta, burdél!”
L’èra una gran fèsta, cumprè un scartòz ad luvòin o ad sìz e amni! Dis frènch in tòt.
D’al volti u’s putéva cumprè d’al guréizi o al caròbli. U i éra ènca di zlè ad zòcar, u m pè ch’i custés trénta frènch.
Quand c’avéma fat la nòstra spòisa, la Manècia la tirèva sò al stanghi d’e’ sù carèt pr’andè a finéi e’ su zéir.
Nòun burdél a’s mitéma disdéi s’un scaléin, zarchènd ad fé luté c’al luvarì féna à nòta.
L’éra un gran réid par c’al musaròli c’a s faséma s’a cal guréizi!
E a panséma zà m’a la dménga dòp, quand la Manècia la sarèb avnòuda d’l èlt zò par la nòstra strèda s’e’ su carèt ad légn.

Ti ricordi la Maneccia?

ESTERNO GIORNO: Gatteo a Mare FC, via Primo Maggio. Anni Sessanta.

“Bambini, arriva la Maneccia!”

Col boccone ancora in bocca correvamo tutti in strada. Io, la Manuela di Nicio, i figli dei Zàqual, la Rita di Pellegrino.

La domenica pomeriggio era l’unica volta che potevamo comprare delle golosità. Il babbo ci aveva dato un po’ di soldini e noi aspettavamo la Maneccia col suo carretto pieno di cose buone. Era una vecchina che faceva il giro del paese incominciando proprio dalla nostra strada. Tutte le domeniche.

La badavamo: facevamo a gara a chi la vedeva per primo venir giù dall’incrocio di Migani. Prima di tutto si vedeva il suo carretto di legno. E poi lei che lo spingeva, sempre col suo fazzoletto in testa. Mi pare fosse sempre vestita di scuro, con dei gran sottanoni e la  parananza grigia. Per noi era uguale alla Befana che porta i regali ai bambini buoni. Quanta soggezione avevamo per la Maneccia! Guai, se facevamo baccano!

“Uno alla volta, bambini!”

Era una gran festa, comprare un cartoccio di lupini e di ceci e brustoline! Dieci lire in tutto. Delle volte si poteva comprare delle liquirizie o le carrube. C’erano anche dei gelati di zucchero, mi pare costassero trenta lire.

Quando avevamo fatto la nostra spesa, la Maneccia tirava su le stanghe del suo carretto per andare a finire il suo giro. Noi bambini ci mettevamo a sedere su uno scalino, cercando di far durare quelle golosità fino a notte.

Era un gra ridere, per quelle musarole (musetti sporchi) che ci facevamo con le liquirizie!

E pensavamo già alla domenica dopo, quando la Maneccia sarebbe venuta di nuovo giù per la nostra strada col suo carretto di legno.

Agli uraziòn de mi bà

“Cantilene e filastrocche – scrive Vittorio Tonelli nel suo libro ‘La veglia nella Romagna dei nonni‘ – entravano in certe preghiere, più ludiche che mistiche. E’ il caso di ricordare ‘L’urazion ad Sènta Cièra’, in un frammento da me appreso (dialettofono com’ero) sulle ginocchia materne:

L’urazion ad Sènta Cièra

banadet a chi l’impèra!

U l’impèra un peligren

che l’è sgnet a San Marten.

La su mama la i dé ‘na pena d’or

e e’ su fiol u n’l’ha avluta,

u l’ha buteta sovra una rora.

La rora la vulteva…

Tòtt è mond u si spianeva!

La filastrocca-preghiera, cantata come una ninnananna, costituiva una sorta di sonnifero per i piccoli. Le mamme lo sapevano e li invitavano ad andare in camera, anche se recalcitranti, non volendo correre il rischio di vederli stramazzare sull’arola calda e piuttosto bassa, rialzata com’era sul pavimento solo una ventina di centimetri.”

Leggendo queste pagine, a Cristella tornano in mente le filastrocche-preghiere del babbo, che ogni volta provocavano l’arrabbiatura della mamma. Peccato averne registrate solo alcune. Come queste, raccontate da Panarèt (Martino Muccioli) il 6 luglio 1996, all’epoca 79enne.

Domine subisco,

è passato e non l’ho visto.

E’ passato sotto il letto,

ha rubato il scaldaletto.

 

“Dire il Patèr”, significava “recitare il Rosario”, abitudine di ogni sera in tutte le famiglie, mentre le donne di casa facevano la calzetta. Ecco, allora:

Patér, nustèr,

una calzèta ad fèr,

una calzèta ad lèna,

e’ Patèr a l gém

stèlta stmèna.

 

L’incipit del “Requiem aeternam”, infine, per Panarèt diventava uno scherzoso:

Réchia materna, vècia sta ferma...

 

La vecchia che doveva stare ferma forse era la nonna? Chissà.

Nelle intenzioni, non c’era sicuramente irriverenza verso la religione: chissà se il Paradiso Panarèt se l’è guadagnato lo stesso?