25 settembre 1944. Il pleuvait sans cesse, ce jour-là…

Sì, è vero: bisogna guardare al futuro, basta con queste storie del passato, del “si stava meglio quando si stava peggio…”

Ma certi avvenimenti del passato non vanno dimenticati. E’ dovere civile (e del cuore) volgere lo sguardo indietro, ogni tanto.

Nel 1944, in questi giorni, il territorio a Nord del fiume Marecchia era campo di battaglia. Il “fronte”, raccontato così tante volte dai miei genitori e dai loro coetanei, si fermò a lungo, anche a causa delle continue piogge che avevano reso i campi simili a pantani. Si pensi che Rimini fu liberata il 21 settembre e Gambettola, una ventina di chilometri più a nord (il luogo dove s’è svolta la tragedia della mia famiglia), soltanto il 15 ottobre. Giorni e notti di sangue, morte, distruzione, terrore…

Come si può non ricordare e rendere omaggio a tutte le innocenti e ignare vittime civili?

Lo “devo” a mia madre e a mio padre, ma anche al nonno e agli zii che non ho mai conosciuto.

Lacrime e rocca: il filo di ricordi di mamma Maria

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita” – 1999. 

Nelle pagine precedenti sono ricordate due abili tessitrici, zia e nipote. Due mamme speciali. Pierina, la mia, per fortuna è ancora vivente.
Sua zia Maria, mamma di Anna, è mancata nel 1980. Ancora viva nel cuore di questa figlia che per onorarne la memoria ha accettato volentieri la proposta di contribuire alla mia “favola della tela”.
Anna è nata nel 1945, dopo la tragica scomparsa dei suoi quattro fratelli. Figlia unica speciale di una coppia di sposi che aveva avuto l’esistenza sconvolta dal passaggio del fronte della seconda guerra mondiale.
Quel giorno (25 settembre 1945) anche mia madre subì un trauma indescrivibile. Per oltre trent’anni non ha voluto parlarne e ogni volta che la televisione trasmetteva scene di guerra ci obbligava a cambiare canale.
I Cenni, detti Giavarein, erano a Bulgarnò (frazione di Gambettola) coloni in un podere di via Branchise. Capo famiglia (arzdor) era il nonno Antonio (1872), detto Tugnein. Nella stessa grande casa vivevano i due figli con le rispettive famiglie.
Il maggiore era Domenico (mio nonno), sposato con Teresina. Avevano sette figli: Pierina (mia madre) nata nel 1923, Francesco detto Chino (1925), Giuseppina (1926), Rosina (1934), Salvatore (1937), Giuseppe (1934) e Vittorio (1941).
Il secondogenito era Sisto, il babbo di Anna. Lui e Maria avevano quattro figli: Renato (1926), Anna (1929), Ester (1932) e Antonio (1935).
Gli avvenimenti di quel giorno lontano sono stati ricostruiti con difficoltà . Mia madre non ha mai voluto liberarsi del macigno di quei ricordi: solo lei può sapere quanto pesino certe esperienze. Dopo oltre cinquant’anni, un po’ alla volta, qualcosa sono riuscita a strappare. Insistere, però, sarebbe forse troppo crudele.
Ho cercato allora libri e documenti (molto utile la collaborazione del direttore della biblioteca di Gambettola) e le testimonianze di persone coinvolte in maniera meno diretta: parenti più lontani o conoscenti che abitavano in quella zona. Tutti hanno un ricordo molto chiaro e preciso di quei giorni tragici.
La cittadina è stata colpita duramente dai bombardamenti ed ha pagato con un numero elevatissimo di caduti civili il passaggio del fronte.
Il dramma dei Cenni, comunque, è nella memoria collettiva l’episodio più cruento del passaggio del fronte. I nove morti dei Giavarein riposano nel cimitero di Gambettola, e sono ricordati con lapidi all’ingresso del Palazzo del Comune e nel Monumento ai Caduti.
Il 15 ottobre 1995, per celebrare il 51° anniversario della liberazione di Gambettola, l’Amministrazione Comunale ha consegnato ai familiari, durante una semplice cerimonia, nove medaglie al valore, rendendo così loro l’onore della cittadinanza.Anna è più grande di me: è stata insegnante alle scuole superiori ed ora è in pensione.
I suoi genitori sono morti quando lei aveva circa 30 anni. Sente molto la mancanza di riferimenti familiari come avrebbero potuto essere i suoi fratelli più grandi.
L’ultima volta ci eravamo viste quando io ero in seconda elementare e lei stava studiando all’università .
Dopo oltre trent’anni, ci siamo reincontrate recentemente al funerale di uno zio. Rispolverando ricordi comuni, abbiamo scoperto una sorta di “feeling” basato, probabilmente, sui geni in comune.
E’ nata una bella e preziosa amicizia.

Dopo aver letto le prime puntate della “favola della tela” da me pubblicate sul Ponte, Anna ha scritto questa lettera.

Cara Cristina,
Ho molto apprezzato gli articoli che ripercorrono la storia della tela che hai scritto per “Il Ponte”.
Mi sono commossa guardando le foto: quella della donna che fila ha fatto riaffiorare in me uno dei miei primi ricordi (che risale a quando avevo due o tre anni). Un ricordo in bianco e nero, proprio come la foto riprodotta sul giornale. Ma non perché la patina del tempo abbia sbiadito le tinte di quel ricordo (dei fiori di allora rammento perfettamente colori e profumi), ma per il fatto che mia madre vestiva sempre di nero per la morte dei miei fratelli. Un segno di lutto, non solo esteriore, durato a lungo nel tempo.
Come per un incanto ho rivisto i fusi, alcuni pieni ed altri vuoti, adagiati nella “panarèta”, la rocca di canna. E una donna vestita di nero, mia madre, che mi volta le spalle e piange i suoi figli che non ci sono più, mentre fa girare vorticosamente il fuso su cui raccoglie la lana filata.
Ho provato una grande nostalgia ed ho versato qualche lacrima, peraltro salutare. Ma complessivamente è stata una dolce sensazione perché comunque lei stava lavorando per me e questo voleva dire che la mia nascita aveva ridato uno scopo alla sua vita, altrimenti disperata.
Queste sono state le mie emozioni, ma nella maggior parte dei tuoi fedelissimi lettori sicuramente avrai risvegliato ricordi di tutt’altro genere.
Anche le tue “memorie viventi”, parlandoti della tela e della canapa, avranno ricordato piacevolmente la loro giovinezza, accennando magari anche alle storie con “e’ furmai” (le prese in giro) che gli anziani nelle lunghe sere d’inverno raccontavano nelle stalle dei contadini per intrattenere i più giovani e le donne che filavano.
E la tua mamma ti avrà  parlato delle ricette gastronomiche e mediche, oggi vanto dei ristoranti alla moda e dei centri omeopatici, in uso nelle grandi famiglie patriarcali al tempo in cui si coltivava e si lavorava la canapa.
Continua ad approfittare di quelle preziose fonti, perché sono vere e proprie “enciclopedie” cui attingere informazioni.
Ti serviranno a non dimenticare il passato, vivere con saggezza il presente e fare progetti per il futuro con il giusto equilibrio.

M’hai chiesto, un giorno, di raccontarti la storia di quella tragedia che ha coinvolto le nostre mamme, basandomi su quanto avevo sentito raccontare.
Oggi ci provo.

Benché mia madre fosse una donna umile, schiva e con uno spiccato senso del pudore, ritengo che la sua storia, un po’ speciale, vada raccontata. Se non altro per rendere onore a lei e a tutte quelle donne che da sempre lottano quotidianamente, trepidano e soffrono per i loro figli.
Maria nacque a Verucchio, antica terra dei Malatesta, il 29 gennaio del 1906, terza dei sei figli di Antonio Giuccioli e Lucia Guaitoli. La sua era una modestissima famiglia di contadini (detti “Marcòin”). Tutti i figli, tre maschi e tre femmine, vennero educati con amoroso rigore all’onestà , alla laboriosità  ed al rispetto reciproco. Non sempre ebbero di che sfamarsi, ma la loro povertà  fu in ogni caso vissuta con grande dignità .
Maria aveva diciotto anni quando conobbe Sisto, nato nella Tenuta Amalia di Verucchio il 3 giugno 1903. Era il sesto degli otto figli dei coloni Antonio Cenni e Lucia Bernardi.
Lei era una ragazza molto in gamba. Lui se ne rese subito conto e non esitò a farsi avanti.
Maria aveva frequentato la scuola con profitto fino alla quarta elementare. Aveva anche imparato a lavorare nei campi ed era esperta nei lavori domestici. Sapeva cucinare, filare, tagliare e cucire, ricamare, lavorare a maglia e all’uncinetto. Rispetto alle sue coetanee, aveva anche una marcia in più, perché era un’abile tessitrice. All’epoca doti importantissime, se si tiene conto che lenzuola, camicie, calze venivano fatte a mano in casa.
Sisto, da parte sua, aveva frequentato la scuola con ottimi risultati fino alla terza elementare. Aveva però dovuto rinunciare alla quarta perché nei campi c’era bisogno anche del suo aiuto.
Era un giovane onesto, gran lavoratore ed estremamente abile nel fare cesti di vimini (al gheibi e al zviri) usati dai contadini per trasportare il foraggio per le bestie e custodire chiocce e pulcini.
Maria e Sisto si piacquero e si apprezzarono vicendevolmente.
Il fidanzamento fu breve per motivi logistici: la famiglia Cenni ebbe l’occasione di trasferirsi da Verucchio a Gambettola su di un podere in pianura, molto più esteso di quello coltivato fino a quel momento. Era un’opportunità  da non perdere. Decisero dunque di sposarsi subito. Tanto più che i trenta chilometri fra Gambettola e Verucchio erano una distanza considerevole, specialmente quando l’unico mezzo di trasporto a disposizione era la bicicletta. In più, le due braccia giovani di Maria sarebbero state una risorsa preziosa per il lavoro sul nuovo podere.
Il matrimonio fu celebrato nell’aprile del 1925: lei aveva diciannove anni e lui ventidue. In quegli anni la famiglia Cenni (detti “Giavarén”) era già  patriarcale: formata da dodici adulti e sette bambini. In seguito sarebbe arrivata a contare anche trentadue componenti.
Nel marzo del 1926 nacque il loro primo figlio, Renato. In seguito ne ebbero altri cinque, ma nel 1944, quando ormai la seconda guerra mondiale sembrava volgere al termine, solo quattro erano viventi: Renato, Anna, Ester e Antonio.
Nella casa colonica che dominava il podere di via Branchise oltre ai miei genitori ed ai loro quattro figli all’epoca viveva il nonno Antonio, stimato capofamiglia e reggitore (arzdor), che era vedovo dal 1931.
Con loro, anche la famiglia del primogenito Domenico, formata dalla moglie Teresina e dai sette figli, di cui uno, Francesco, era lontano poiché chiamato alle armi. La maggiore dei ragazzi era Pierina, poi c’era Giuseppina, Rosina, Salvatore, Giuseppe ed il piccolo Vittorio.
In tutto sedici persone, di età  compresa fra i settantadue ed i due anni.
Quelli della guerra furono anni difficili per tutti. Per la famiglia Cenni in particolare: subì uno spietato saccheggio dei bauli che custodivano i corredi delle donne e dovette cedere le modeste risorse alimentari ancora disponibili alle truppe tedesche acquartierate nella grande casa colonica. Non fu impresa semplice tenere nascoste le ragazze della famiglia per sottrarle alle violenze. Gli uomini dovettero sopportare minacce, maltrattamenti e privazioni di ogni genere, Il peggio, però, doveva ancora venire.
Il 25 settembre 1944 si consumò una terribile tragedia: un bombardamento decimò la famiglia. Morirono in nove. I più soffocati nel rifugio dove avevano creduto di mettersi in salvo. Gli altri, accorsi in loro aiuto, dilaniati dalle bombe. Della grande famiglia Cenni erano morti, quel giorno, il reggitore Antonio, suo figlio Domenico insieme ai tre figli Salvatore, Giuseppe e Rosina, tutti quattro i figli di Sisto e Maria.
Non conosco i particolari di tanta sventura. So però che fu causa di un dolore atroce ed indescrivibile. Un dolore che non si placò mai, neanche col passare del tempo. I superstiti, alcuni anche feriti, pietosamente composero le salme e diedero loro un’umile sepoltura nel cimitero, incuranti delle bombe che continuavano a bersagliare il paese.
Appena venti giorni dopo, il 15 ottobre 1944, il comune di Gambettola veniva liberato.
Sisto e Maria, cui erano morti tutti i quattro figli, insieme a Teresina, che aveva perso il marito Domenico e tre dei suoi sette figli, si rimboccarono le maniche e, come automi, bonificarono i campi dalle bombe e seminarono il grano.
Ma poi, non essendo più in forze sufficienti per lavorare un podere così grande, di comune accordo decisero di andarsene da Bulgarnò.
Dopo aver trovato una sistemazione, il più possibile dignitosa, per la cognata Teresina ed i suoi figli, Sisto e Maria accettarono di trasferirsi a Cesena presso l’essiccatoio del tabacco, di proprietà  dell’Ospedale.
Come custodi dello stabilimento ebbero l’uso gratuito dell’abitazione, ma non fu assegnato loro alcun stipendio.
Avevano una casa in cui abitare, ma erano rimasti soli, ancora sotto shock, disorientati e senza uno scopo.
Sisto cominciò a lavorare come operaio saltuario. Ma quando tornava non trovava nulla da mangiare perché la sua Maria aveva vagato nel grande cortile antistante la casa, come sperduta, tra lamenti, lacrime e grida di dolore.
I parenti cercarono di consolarli, ma invano. Alla fine, come ultima risorsa, pregarono il buon Dio perché concedesse un altro figlio a quella coppia tanto sfortunata.
Furono esauditi. Io nacqui una domenica sera, il 9 settembre 1945 e fui chiamata Anna Ester, come le mie due sorelle scomparse.
Mia madre aveva trentanove anni, mio padre quarantadue. Le loro tempie erano già  grigie ed il cuore lacerato da un dolore incommensurabile.
Quando Maria rimase incinta era affranta al punto da non rendersi conto che sarebbe diventata madre un’altra volta. Uscì dalla sua catalessi solo dopo il parto, quando mi sentì piangere ed avvertì il mio respiro vicino al suo viso.
Io ero viva!
Da quel momento anche i miei genitori rinacquero a nuova vita: dovevano lavorare per me.
Ero piccolissima, ma ricordo bene che la mamma, durante il giorno, mi sistemava sulla tavola in cucina, puntellata da due cuscini per evitare cadute. Intanto lei filava instancabile o lavorava a maglia.
Tante volte l’ho vista piangere e l’ho sentita chiamare i miei fratelli.
Non ho mai osato chiederle di raccontarmi cosa e come fosse accaduto.
Agli occhi della gente io sono sempre stata una figlia unica. Nella realtà  non era così, perché i miei fratelli sono sempre stati presenti nella mia famiglia ed io li ho molto amati.
Mia madre mi ha cresciuta in modo spartano, senza indulgere ad alcuna forma di permissivismo: avrei dovuto cavarmela da sola anche nel caso lei ed il babbo fossero morti prematuramente. Per garantirmi un futuro migliore del loro mi fecero studiare. Io, con non pochi sacrifici, mi impegnai in modo da non deludere le loro aspettative.
Nei trent’anni che seguirono quel tragico 25 settembre Maria dovette sopportare il dolore di altri lutti: la scomparsa prematura di due fratelli, di una sorella e di un nipote appena diciottenne.
Il 19 aprile 1976 morì anche mio padre.
Qualche mese dopo a mia madre fu diagnosticato un male incurabile all’occhio sinistro. La sua agonia, lenta e dolorosissima negli ultimi mesi, durò fino all’11 febbraio 1980, quando raggiunse i suoi amati figli ed il compagno della sua vita.
Cos’è rimasto a me?
Un’eredità  preziosa: i ricordi e gli insegnamenti. Ma, soprattutto, l’esempio di una vita vissuta con dignità  e con grande dirittura morale.
Sono orgogliosa di avere avuto come genitrice lei, una vera madre-coraggio.
Oggi, che anch’io sono madre, nonostante i miei cinquantaquattro anni ogni tanto vorrei tornare bambina: ho una grande nostalgia delle sue carezze, specialmente quando sono triste e mi sento sola.
Quanto mi consolerebbero!
Guardo e tocco le tele che lei ha tessuto per me fra le lacrime. Quelle tele che ho visto nascere dalle sue mani.
Le accosto al viso. Riesco a sentire l’odore ed il calore del suo abbraccio…

Dai ricordi di alcuni testimoni gambettolesi

(raccolti da Paolo Severi, maestro di Gambettola, storico, scrittore)

“Nella casa dei Cenni erano sistemate artiglierie tedesche, come pure nelle tre case poco lontane. Altra artiglieria era sparsa nella zona. Particolarmente nel canneto che sorgeva lungo il fiume Pisciatello. Nel punto in cui questo lasciava via Branchise e, formando un’ansa, si dirigeva verso la marina. La ‘cicogna’ (il piccolo aereo da ricognizione) doveva aver fatto un buon lavoro, dando le utili segnalazioni sulle numerose postazioni tedesche. Nel rifugio, costruito alla deviazione a nord della via Branchise, coi Cenni c’erano altri sfollati…”

“I nove morti dei Cenni vennero ammucchiati su un carro trainato da buoi. Qualche asse, forse, li divise nella sepoltura…”

“Francesco, che era alle armi, a fine guerra tornò a casa, trovandola vuota. Non aveva saputo cosa, come e quando era avvenuto ai suoi cari!”

 

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