Le misteriose odalische di Viserba: come nei film in bianco e nero

La villa c’è ancora. Esternamente è proprio così com’era negli anni Trenta e come la descrive il poeta viserbese Elio Pagliarani: rivestita di mattoncini, il terrazzo che confina con la strada, un giardinetto con erba secca.

Si trova all’angolo fra via Lamarmora e via Boito.

Pare abitata solo in estate, probabilmente data in affitto a turisti…

Chissà cos’è rimasto all’interno? Anche se “cupi” (così le descrive Elio), quegli affreschi di Fortunato Depero, se non fossero stati distrutti, meriterebbero di essere visti e sarebbero (o avrebbero potuto essere) un punto di riferimento artistico locale del futurismo.

L’associazione Ippocampo, su suggerimento di Maria Concetta Petrollo, moglie di Pagliarani, si sta muovendo per le ricerche storico-architettoniche.

Intanto, ecco il brano del “Pro-memoria a Liarosa” che racconta il ricordo di quegli anni. Non sembra  la scena di un film in stile “telefoni bianchi”?

Buona lettura!

Da “Pro-memoria a Liarosa (1979-2009)” di Elio Pagliarani, Marsilio Editore 2011.

Il conte Diego di Costa Vissara era stato segretario del fascio di Viserba negli anni rampanti del fascismo e del futurismo, quando cioè i proprietari delle ville in nome del nazionalismo del futurismo e del fascismo si erano impadroniti di Viserba (la tradizione indigena essendo invece di ben radicato socialismo) come fosse una colonia africana, e la amministravano direttamente: costruirono il Kursaal o il Circolo dei Forestieri, proibito ai locali cioè agli indigeni, e convocarono una sera alla casa del fascio il muratore Vignali (cognome vero: Montemaggi), comunista notorio, che morì all’ospedale di Rimini qualche giorno dopo quella convocazione. Sua moglie fu per sempre a Viserba “la vedva” la vedova e basta, la vedova per antonomasia. Negli anni Trenta quel Diego non era più segretario del fascio, avevano passato la mano ai locali, ma era bene star lontani dalla sua buffa villetta; che pure era esposta verso la strada: non c’era giardino, ma tutto un rialzato di cemento su cui erano sparsi tappeti e cuscini dove vedevamo spesso sdraiate delle odalische, o comunque figure femminili in chimono o indumenti del genere, che fumavano in continuazione in bocchini lunghissimi. Prendevo uno scappellotto dalla mamma se mi fermavo a guardare, e non mi fermavo a guardare nemmeno quando ci passavo vicino da solo. Dentro trionfavano cupi affreschi di Depero, losanghe in rosso e in nero: non mossi un dito (del resto avrei potuto fare ben poco) quando di quell’interno buttarono giù tutto, negli anni Cinquanta.

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