Per i Santi, i guanti. Per i Morti, le fave.

Quest’anno coi proverbi proprio non ci siamo: domani, 31 ottobre, è la vigilia di Ognissanti e, secondo la saggezza popolare, si dovrebbe essere già alle porte dell’inverno. Infatti “per i Sént, i guènt” (per i Santi, i guanti) e “per i Sént l’invérni l’è ma chèsa su” (per i Santi l’inverno è a casa sua) stonano alquanto col clima attuale.
Qui a Rimini si sta ancora a braccia scoperte e l’aria è calda come in primavera avanzata (magari non lo dico troppo forte, per scaramanzia…).
Proverbi o non proverbi, comunque, una cosa è certa: abbiamo già risparmiato un “tot” nelle spese per il riscaldamento. Il che non è poco, vista l’aria di crisi che tira.
Un altro vecchio proverbio riferito alla giornata di Ognissanti è il seguente:

Inféna ai Sént
us porta a cà al smént
e dai Sént in zò
un s’in porta a cà piò.

Cioè: fino ai Santi si portano a casa le sementi e dai Santi in giù non se ne portano a casa più (perché secondo il calendario della campagna, frutto di chissà quali e quanti insegnamenti degli avi, si poteva seminare i campi o la settimana prima dei Santi o la settimana dopo).

Per quanto riguarda i cibi che per tradizione si preparano “per i Morti”, riporto la ricetta n. 622 dalla Bibbia dei cuochi: “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi. Non ci sono solo ingredienti e modalità di preparazione.
Leggere per credere. Continua a leggere

Buttare il pane? Non si fa! Specialmente in tempi di crisi.

Schiacciato e nascosto da altri libri del reparto “Romagna” della mia libreria, in questi giorni è saltato fuori un opuscoletto di 48 pagine edito da Il Ponte nel 1992. Forse avrei dovuto riporlo nello scaffale “Cucina e ricette”, visto che si intitola “Pane al pane. Ricette regionali italiane per utilizzare il pane vecchio”.

Il titolo, ne sono certa, più di altri incuriosirà Danda e la sua amica d’Oltremanica Mrs Average, ambedue attente all’ecologia e al riciclo, nonché nemiche dichiarate degli sprechi di qualsiasi tipo.

pane al pane

Il libretto, per la cronaca, ha una prefazione dell’allora direttore del Ponte: il prete-giornalista don Piergiorgio Terenzi, già noto ai lettori di Cristella come maestro di scrittura. Lo stesso che ogni tanto collabora attraverso la rubrica “Lettera 22” in “Romagna e dintorni”del sito (a proposito: è ora che gli chieda un pezzo nuovo…).

“Un segno da rivalutare – scrive Piergiorgio – Nelle pattumiere delle nostre case si getta tanto pane; in Italia sono tonnellate ogni giorno. Eppure, non si può ignorare che al mondo ci sono milioni di persone che cercherebbero il pane anche nella spazzatura, pur di non morire di fame. Buttare il pane è un’offesa a chi non ne ha neppure per sopravvivere, ed è un atto economicamente sconsiderato. Per evitarlo basterebbe pensare che ci sono mille maniere per utilizzare il pane vecchio.”

Fra le tante ricette, che comprendono primi piatti, antipasti, polpette, crocchette, frittelle, dolci, piatti unici, ne riporto una che mi sembra promettere bene. E, particolare da non sottovalutare, è facile da preparare.

Torta di pane grattugiato

Ingredienti:

½ chilo di pane grattugiato, 3 etti di zucchero, 2 uova, ½ etto di burro (piuttosto scarso che abbondante), un cucchiaio di cioccolato amaro in polvere, un bicchierino di grappa, buccia di un limone grattugiata, cannella e chiodi di garofano, un pugno di farina, una bustina di lievito.

Mettere il pane in una zuppiera, aggiungere la farina, il cioccolato, gli aromi, il lievito, lo zucchero, il burro sciolto a bagnomaria, la grappa. Mescolare bene.
Alla fine aggiungere le uova sbattute.
Imburrare una teglia da torte e cospargerla di pane grattugiato.
Versare nella teglia l’impasto precedentemente preparato e cuocere in forno, a 180°, circa mezzora.

Buon appetito!

A mòl t’e’ dialèt

Un week end di full immersion nel dialetto.
Oddio, no! Non è proprio il caso di infilare quattro parole inglesi in una frase che ne conta otto in tutto. A cosa sarebbe servita la lezione?
Alòura: “un sàbat e una dménga a mòl t’e’ dialèt”. (allora: un sabato e una domenica a mollo nel dialetto).

Come avevo preannunciato qualche giorno fa, nell’ultimo fine settimana ho partecipato al seminario sulle lingue romagnole tenuto a Bellaria dall’attore Ivano Marescotti.

Per Cristella è stata un’esperienza decisamente piacevole e costruttiva. Gli “allievi” del prof. Marescotti erano, oltre a me, una quindicina di persone provenienti da diverse parti della Romagna. I più giovani sui trent’anni, la più “anziana” un’ex maestra che ci poteva essere mamma (non è fine svelare l’età di una signora).

L’aspetto più curioso delle due mezze giornate passate insieme a discutere di dialetti (a scòrr d’i dialét – notare, nel plurale, l’accento sulla “e”, che diventa acuto – visto che ho imparato le lezioni, prof.?) è stato verificare in presa diretta le differenze fra l’una e l’altra zona: anche nel raggio di qualche chilometro cambiano pronunce e inflessioni. Ma non solo: spesso sono diverse anche le parole che indicano la stessa cosa e persino la costruzione grammaticale delle frasi.

Per esempio: quasi dappertutto la mamma si dice “” , mentre nella zona ravennate (quella da cui proviene Marescotti), che tocca anche parte del territorio forlivese e cesenate, si dice “màma”, dove quella “à” che si avvicina ad una “e” viene pronunciata “alla portoghese”.

Fra le tante considerazioni, comunque, alcune certezze (di tutti, non solo di Marescotti).

Primo: il dialetto è – e rimane – una lingua orale e venendo a mancare, un po’ alla volta, la grande risorsa dei vecchi (coloro cioè che ancora pensano e parlano in dialetto) la perderemo.

Secondo: scrivere in dialetto è difficilissimo, sebbene ci siano precise regole di sintassi e grammatica.

Terzo (già detto): i dialetti sono tanti e diversi, spesso identificabili di famiglia in famiglia.

Quarto: fra i poeti che scrivono o hanno scritto in romagnolo, il più grande rimane Raffaello Baldini, di Santarcangelo. “Il più grande poeta italiano degli ultimi decenni” ha scritto di lui un noto critico letterario. Beninteso: il più grande italiano, non il più grande dialettale.

La sua capacità di essere tragico con ironia è la sfumatura che lo contraddistingue più di altre.

Riportare ancora una volta qualcuno dei suoi versi è un piacere.

Un consiglio: la poesia in dialetto va letta a voce alta. “Dài, próva ènca té!”

Mo acsè, dal vólti, quant a tòurn a chèsa,

la sàira, préima d’infilé la cèva,

a sòun, drin drin,

un’arspònd mai niseun.


Ma, così, delle volte, quando torno a casa, la sera, prima d’infilare la chiave, suono, drin, drin, non risponde mai nessuno.

Dal pianissimo iniziale al maestoso finale: quando la creatività è roba da matti

Maurice Ravel compose il suo “Bolero” nel 1928, all’età di 53 anni.

Anne Adams, una scienziata canadese morta a seguito di una rara malattia celebrale nel 2007, alla stessa età dipinse “Unravelling Bolero”, traducendo la musica di Ravel in forma visiva. Anne iniziò a dedicarsi esclusivamente alla pittura in età adulta, dopo aver lasciato la carriera di scienziata ed insegnante all’età di 46 anni per prendersi cura del figlio che era rimasto ferito gravemente in un incidente stradale. Il ragazzo guarì, nonostante tutti l’avessero dato per spacciato. La madre, forse turbata da questa esperienza, decise di non tornare più al suo lavoro, ma di cambiare vita, votandosi completamente all’arte.

Ma cos’hanno in comune i due Bolero, quello di Bizet e quello di Anne?

Lo spiega il neurologo Bruce Miller, direttore del Memory and aging center dell’University di California a San Francisco, che ha avuto in cura Anne.

“Bolero è un esercizio compulsivo, strutturale e perseverante. E’ costruito senza cambiare chiave fino alla 326esima battuta. Poi accelera fino al collasso finale. Anne dipinse per ogni battuta una forma rettangolare verticale. Forme disposte in maniera ordinata, come la musica, contrastata da un sistema di avvolgimento a zig-zag. La trasformazione del suono in forma visiva è chiara e strutturata: l’altezza corrisponde al volume, la forma alla qualità e il colore al tono.”

Affascinante, vero?

Ma ciò che più mi ha colpito, in questa storia, è un’ulteriore anello che collega i due: sia Ravel sia Anne erano nelle fasi iniziali della stessa malattia mentale, la Ftd (o demenza fronto-temporale), la quale pare aver alterato i circuiti nei loro cervelli, modificando i collegamenti fra l’area anteriore e quella posteriore. Il risultato? Un torrente inarrestabile di creatività.

“Questo succede – spiegano gli specialisti – perché se una parte del cervello soffre, un’altra può rimodellarsi e diventare più forte. Quando una parte del cervello è lesa o compromessa, si può verificare una disinibizione delle attività negli altri settori.”

Come volevasi dimostrare: le catene delle inibizioni (naturali, sociali, religiose) imprigionano l’arte, la creatività, la genialità…

In attesa di riconoscere i primi sintomi, magari per iniziare a scrivere il best seller di tutti i tempi, consiglio di godersi il video (parte1) e parte 2 con la registrazione del Bolero nella versione che preferisco: diretta dal mitico Von Karajan.

Prego, notate l’unicità del suo modo di dirigere! Che fosse anche lui un po’ malato?