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Rimini: itinerario felliniano

LA RIMINI DI FELLINI

(tratto da “52 domeniche in Romagna”, Menabò Editore Forlì)

Il figlio più grande della città è senza dubbio Federico Fellini: il suo cinema è edificato per la maggior parte su memorie dell’infanzia e della giovinezza riminesi. Una Rimini sempre costruita “altrove”, vuoi sul Lido di Ostia o negli studi di Cinecittà, ma con la quale il Maestro ha mantenuto grandi legami affettivi, tant’è vero che ha chiesto di riposarvi per sempre. E proprio all’ingresso del cimitero si trova il monumento funebre che Arnaldo Pomodoro ha ideato per il regista e per Giulietta Masina: una grande prua rivolta al cielo, che evoca il leggendario Rex di Amarcord. L’itinerario nella Rimini felliniana parte proprio da qui, per proseguire verso luoghi, forse già incontrati, da guardare stavolta con occhi diversi, come flash back su scene da Oscar. Prima tappa al Borgo San Giuliano coi suoi murales dedicati al Maestro e ai suoi film, e al vicino Ponte di Tiberio, dove passava la corsa delle Mille Miglia di Amarcord. Si imbocca Corso d’Augusto: sulla destra, dopo un centinaio di metri, ecco il cinema Fulgor, l’occhio sul mondo e l’incontro col cinema americano. Due passi e siamo in Piazza Cavour, con la scalinata dell’Arengo, teatro della celebrazione fascista e della solitaria protesta del grammofono che suona l’Internazionale, e con la Fontana della Pigna, che ha visto le pallate di neve a Gradisca, le scorribande di Scureza, l’incanto del pavone. Si svolta per via Gambalunga dove, nel Palazzo Gambalunga, aveva sede il vecchio Ginnasio teatro di mille goliardate. Dalla finestra si poteva vedere Piazza Ferrari e il suo monumento ai caduti della Grande Guerra (i “nudi delle statue”). Proseguendo verso la stazione ferroviaria (il treno, metafora di ogni partenza, molto cara al Maestro) si passa in via Oberdan, dove, nella casa della sorella Maddalena, ha sede il Museo Fellini. Lì vicino, al numero 91 di via Clementini, la casa dell’adolescenza di Federico e del primo amore per Bianchina: il Palazzo Dolci. Ultime tappe, verso il mare: il molo (la “palata”, meta invernale dei Vitelloni e teatro delle bravate di Scureza, il motociclista di Amarcord) e piazzale Fellini col mitico Grand Hotel, simbolo di tutti i desideri “proibiti”.

Scoop sensazionale: Cristella beccata con le mani in pasta

Una cosa ho imparato, in cinque mesi da apprendista blogger: a prenderlo con lo spirito giusto, tutto questo è come un Grande Gioco (reminiscenze scout).

Ancora una volta confesso che mi ci sto divertendo un sacco, con questo giocattolo: i commenti incrociati coi più affezionati corrispondenti on-line, la favola che sarà pubblicata per aiutare Gramos, la ricetta degli strozzapreti su Youtube…

E oggi, ciliegina sulla torta, il gioco Le mani dei blogger, iniziativa ospitata dal blog del Conte.

Tante fotografie, con o senza mouse, di mani più o meno note.

C’è Placida, Nostra Signora del web; c’è Shaindel, la Gnappetta del Venezuela e… c’è infine Cristella, con le sue “mani in pasta”, copiaincollate dalla video-ricetta targata Youtube.

 Logo Piccolo 

A questo punto, se ne fossi capace, vorrei farvi ascoltare la bella canzone sulle mani di Edoardo De Crescenzo.

Mi limito a trascriverne il testo.

Bello, vero?

Mani

Se sei un amico ti stringo la mano
se chiedi un aiuto ti tendo la mano
E prendi la mano, e dammi la mano
e prendi la mano, e dammi la mano
Il padre il bambino lo tiene per mano
c’è tutto il destino in un palmo di mano
Le mani, le mani che sanno parlare, che sanno guarire e che sanno pregare
Le mani legate, le mani ferite, le mani, le mani pulite
Le mani, le mani,le mani legate, le mani ferite, le mani pulite
Le mani, le mani,le mani legate, le mani ferite, le mani pulite

Saluti ruffiani baciamo le mani
caliamo i calzoni e in alto le mani
Chi prende il potere allunga le mani
chi sfugge al dovere se ne lava le mani
Le mani, le mani, che sanno tradire, che sanno soffrire e che sanno sbranare
Le mani spietate che danno la fine, le mani, le mani assassine
Le mani, le mani, le mani spietate che danno la fine, le mani assassine
Le mani, le mani, le mani legate le mani ferite, le mani pulite

Apriamo le mani, le mani più avare
che stringono ancora quei 30 denari
Mettiamo le mani, le mani sul cuore
più sono sincere e più danno calore
Le mani, le mani, che sanno di mare, che sanno di terra, che sanno di pane
Battiamo le mani per farci sentire, più forte le mani, le mani
Le mani, le mani, che sanno di mare, che sanno di terra, che sanno di pane
Le mani, le mani, che sanno di mare, che sanno di terra, che sanno di pane
Le mani, le mani, le mani spietate che danno la fine, le mani assassine
Le mani, le mani, le mani spietate che danno la fine, le mani assassine
Le mani, le mani, le mani, le mani

Nuove regole di buona scrittura. Per ridere un po’

Lo so, lo so, ogni tanto vesto i panni della “Maestrina dalla penna rossa”: quando si tratta di segnalare refusi ed errori di ortografia fatti dagli altri sono eccessivamente pignola, rischiando spesso di non accorgermi delle sviste mie…
Queste frequenti inesattezze sulla carta stampata sono dovute anche al fatto che nelle redazioni dei giornali non lavorano più i cari e precisi correttori di bozze di una volta. Ora tutto è affidato alla tecnologia, che ragiona a modo suo.

Tanti errori, anche quelli in cui inciampano i comunicati ufficiali di enti e amministrazioni, sono spesso figli del correttore automatico di word.

Un esempio personale? Il mio cognome ogni tanto diventa un rassicurante Cuccioli, mentre Viserba, la cittadina in cui abito, viene velocemente convertita in Riserba.
Per restare in tema, oggi un quotidiano locale titola così: “Alcol vietato. Lombardi spinge la Regione ha impugnare la legge”.

Io avrei scritto “alcool” e “a impugnare”. Sulla prima correzione (la doppia “o”) forse sono ammissibili le due versioni. Sull’acca di troppo, invece, direi che l’errore è proprio grave!

E’ pur vero che per i quotidiani l’elemento “fretta” gioca il suo ruolo: scrivi adesso e fra due ore è già tutto stampato in qualche migliaia di copie, che fra otto ore saranno sui camioncini dei consegnatari e fra dieci sui banchi delle edicole. E chi corregge più?

Col blog, invece, se ti accorgi di aver sbagliato puoi sempre porre rimedio, magari dopo qualche giorno.
Per questo motivo ho ricontrollato – prima, dopo e dopo ancora – un nuovo arrivato in rete che era stato segnalato dall’amica blogger. Mi sono trattenuta dal lasciare un commentino velenoso (“Meglio ignorare”, ho pensato). Però, fa un brutto effetto, quando apri l’home page di uno che si presenta come giornalista di lungo corso e collaboratore di quotidiani a tiratura nazionale e ci trovi scritto, in bell’evidenza: “Un’altro blog? Il perchè.”
Passi per quell’accento grave che andrebbe immediatamente sostituito (e qui il correttore automatico aiuterebbe), ma l’apostrofo! La “Maestrina dalla penna rossa” lo boccerebbe di corsa, questo scolaretto!
… e gli farebbe studiare a memoria le regole di buona scrittura che ho copiato da un’altro blog (acc… è scappato un’apostrofo – anzi due – purammé!).
Alcune regole di buona scrittura


1) I verbi avrebbero da essere corretti
2) Le preposizioni non sono parole da concludere una frase con
3) E non iniziate mai una frase con una congiunzione
4) Evitate le metafore, sono come i cavoli a merenda
5) Inoltre, troppe precisazioni, a volte, possono anche, eventualmente, appesantire il discorso
6) Le indicazioni tra parentesi (per quanto rilevanti) sono (quasi sempre) inutili
7) Siate press’a poco precisi
8) Attenti alle ripetizioni, le ripetizioni vanno sempre evitate
9) Non lasciate mai le frasi in sospeso perché non
10) Evitate sempre l’uso di termini stranieri, soprattutto sul Web
11) Siate sintetici: cercate di evitare di cadere nell’errore di abbondare nell’utilizzo di vocaboli tronfi ed espressioni ridondanti, ovvero in tautologismi generalmente destinati a rivelarsi superflui
12) Evitate le abbreviaz. incomprens.
13) Mai frasi senza verbi.
14) I confronti vanno evitati come i cliché
15) Evitate le virgole, che, non, sono necessarie
16) Non usare paroloni a sproposito: far ciò è come commettere un genocidio
17) Imparate qual’e’ il posto giusto in cui mettere l’apostrofo
19) “Non usate citazioni”, come diceva il mio professore
20) Evitate il turpiloquio, soprattutto se non serve ad un cazzo
21) C’e’ veramente bisogno delle domande retoriche?
22) Come vi avranno già detto centinaia di milioni di miliardi di volte, non esagerate
23) Solitamente, non bisogna mai generalizzare

Pellegrino Artusi, maestro di cucina delle brave arzdore

Mentre i giornali e le Tv parlano delle eredità miliardarie (con debiti inclusi) di cantanti famosi, mi cade l’occhio sulla scatola dei ricordi che ho portato a casa cinque mesi fa. La mia parte di eredità, di sicuro molto più preziosa di quella dei Vip.
Fra vecchie fotografie, cartoline e centrini fatti all’uncinetto, c’è un libro dalle pagine ingiallite.
La copertina consunta dall’uso è stata ricoperta con una carta rossa dai ghirigori azzurri e lilla. Carta leggermente cerata. Ritagliata su misura e fermata agli angoli con puntine da disegno veniva usata per foderare i cassetti della cucina dopo la pulizia stagionale.
La prima pagina bianca del volume porta in alto il nome della precedente proprietaria.

Scritto a matita, con grafia elementare e limpida: Pierina Cenni in Muccioli.
La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Manuale pratico per le famiglie compilato da Pellegrino Artusi (edizioni Bemporad Marzotto Firenze, 1963) è l’unico libro che ricordo di aver visto in casa mia quand’ero bambina.
Tenuto come oggetto prezioso e consultato spesso da mia madre, che come tante altre romagnole nell’epoca del boom economico, dalla campagna “scese a Marina” insieme alla famiglia.
Da brava arzdora a cuoca per i turisti.
Un passaggio piuttosto facile: invece che per la famiglia patriarcale con numeri che superavano la ventina, Pierina iniziò a spignattare negli alberghi e nelle pensioni di Cesenatico, Valverde, Gatteo a Mare.

Per quasi trent’anni e senza demerito. Anzi, oserei dire con onore.
L’Artusi era la Bibbia della mamma.

Ci sono ancora, fra le pagine, dei bigliettini con appunti e note.
Li tocco e li sfioro, attenta a non cambiar loro di posto.
Se lei ne aveva messo uno fra la pagina 144 e la 145 un motivo c’era…
Sì, certo, ne sento ancora il profumo! Riconosco la ricetta numero 180, le semplici e morbide “Frittelle di semolino”.
“Ai tedeschi dell’hotel Boston – diceva la mamma – piacevano un sacco. Venivano in cucina a farmi i complimenti! Sehr gut, Frau Pierina, wunderbar!”
E allora, visto che non è neanche troppo lunga, la copio pari-pari dall’Artusi. E domani la preparo.

Wunderbar, Frau Cristella!


Frittelle di semolino
Latte, mezzo litro.
Semolino, grammi 130.
Burro, quanto una noce.
Rhum, una cucchiaiata,
Odore di scorza di limone.
Sale, quanto basta.
Uova, N. 3.
Cuocete il semolino nel latte, salatelo quando è cotto e, diaccio che sia, aggiungete le uova e il rhum. Friggetele nell’olio e nel lardo e mandatele in tavola spolverizzate di zucchero a velo.

Questa quantità può bastare per quattro o cinque persone.

Siamo agli sgoccioli. A che santo ci votiamo?

E’ notizia di ieri.
Il presidente della Provincia di Rimini, Ferdinando Fabbri, lancia un appello ai cittadini affinché si risparmi acqua.
“Siamo agli sgoccioli”, titolano i giornali.
Non sono bastate le restrizioni e i divieti in vigore dall’estate scorsa (fontane chiuse, divieto di annaffiare orti e giardini e di lavare le auto in certi orari…). Non sono bastate le poche giornate di pioggia. La siccità degli ultimi mesi ha messo in ginocchio più di un settore, agricoltura in primis. Le falde sotterranee sono ai minimi storici, come gli invasi che alimentano gli acquedotti.
In poche parole: se nulla cambia, fra una quindicina di giorni Rimini si troverà coi rubinetti asciutti.
Mentre mi chiedo se sia meglio continuare a lavare i piatti a mano o investire mezzo stipendio per acquistare la lavastoviglie (una recente pubblicità invita tutte le famiglie a comprare questo elettrodomestico, descritto come oggetto di cui non si può fare più a meno…), bagno quei due sparuti gerani che ho sul balcone con l’acqua rimasta dal lavaggio dell’insalata, chiudo il rubinetto mentre uso lo spazzolino da denti, preferisco la doccia alla vasca da bagno…

Insomma, per quanto riguarda le piccole abitudini quotidiane, penso di avere la coscienza a posto.
Non so, però, cosa potrà succedere se davvero dai rubinetti non uscirà più una goccia.
Ma la curiosità social-storico-politica che volevo segnalare col post di oggi è che Fabbri, “The President”, ha anche chiesto al vescovo Lambiasi di informare la cittadinanza tramite le parrocchie.
“Forse questa potrà apparire a qualcuno un’iniziativa strana, insolita – ha detto – ma in un momento così critico e difficile per la nostra comunità ci sembra opportuno cercare di sensibilizzare tutti i riminesi. Il vescovo ha capito perfettamente la situazione e si è immediatamente mobilitato”.
Oltre che invitare i fedeli a seguire i consigli di risparmio idrico, monsignor Lambiasi ha deciso di esortarli a formulare un’intenzione di preghiera, nelle Messe di oggi e del prossimo futuro, che suona così: “Perché il Signore doni alla terra assetata il refrigerio della pioggia, perché l’umanità, sicura del suo pane, possa ricercare con fiducia i beni dello spirito”.

E domani, lunedì 22 ottobre, durante una funzione appositamente celebrata il vescovo rinnoverà un rito di “invocazione della pioggia” che a Rimini è storicamente radicato.

Non so quando è successo l’ultima volta, ammetto la mia ignoranza: ci vorrebbe una consulenza dell’amico blogger Antonio, esperto di cose riminesi.
Comunque, la celebrazione sarà all’interno del capolavoro di Leon Battista Alberti, il Tempio fatto costruire nel Cinquecento da Sigismondo Pandolfo Malatesta per celebrare sé stesso. Nella prima cappella a sinistra, appena dopo l’ingresso, si trova la “Beata Maria Vergine della Pietà”, nota ai riminesi come “Madonna dell’Acqua”, che più di una volta mi sono fermata ad ammirare e che per l’occasione verrà portata accanto all’altar maggiore, sotto lo sguardo del Crocifisso di Giotto.

Si tratta di una graziosa scultura dei primi del ‘400 di scuola tedesca che nei secoli passati veniva invocata dal popolo in tempi di siccità o di piogge troppo abbondanti.

Ricordo anche di aver letto di una rivolta popolare quando si vietò una processione che i fedeli volevano fare per le vie della città per invocare la pioggia. Per evitare uno scontro violento fra le diverse fazioni (i potenti e il popolino) si arrivò ad un compromesso: la Madonna della Pietà venne portata in processione in un percorso ben delimitato, nelle strade attorno al Tempio. Mi pare che, poi, la pioggia arrivò davvero.
Mentre segnalo questa curiosa “commistione” fra sacro e profano che si ripete nel 2007 e che comunque, pioggia o non pioggia, farà conoscere ai riminesi un pezzettino della loro storia (il che non guasta mai), più pragmaticamente e riallacciandomi ai precedenti post sulla cementificazione selvaggia di alcune zone mi viene spontanea una considerazione: “Ma se anche piovesse a dirotto per tre giorni di fila, dov’è rimasto del terreno libero da costruzioni dove l’acqua possa infiltrarsi ed andare giù, a rimboccare le falde sotterranee?”  
Vedo che ogni volta che fa un acquazzone le strade diventano torrenti e le cantine delle case si allagano.
Non è che, oltre alla Beata Vergine dell’Acqua, bisogna accendere un cero agli uomini che stanno contribuendo al dissesto del territorio?
Basta! Fermatevi!