Archivi tag: Viserba

Passeggiate viserbesi. Dalla spiaggia al Lago Riviera percorrendo la Fossa dei Mulini

Torna il sole e la voglia di passeggiate.

La fortuna di abitare a Viserba offre percorsi decisamente interessanti, che sarebbero da proporre anche ai tanti turisti che – peccato per loro! – vedono solo spiaggia, ombrelloni e gelati.

Ecco la mia proposta di itinerario: porticciolo – ex lavatoio – vecchio mulino – ex corderia – lago Riviera.

Si parte dalla spiaggia, all’altezza del porticciolo, appunto. Attraversato il lungomare ci si immette sulla stradina/copertura di quella che fu la Fossa dei Mulini. Passando fra le piccole case che una volta erano abitate da pescatori e marinai, si arriva ai giardinetti sorti nel sito dell’ex lavatoio. Oltrepassata la ferrovia, il panorama cambia, e ci si trova a camminare fra campi e orti fino ai ruderi di un mulino antichissimo. Proseguendo ancora, ecco il muro di cinta dell’ex corderia, che rievoca storie di sudore e mistero… Sulla sua destra, il lago Riviera con gli appassionati di pesca e le loro canne: un luogo adatto anche per un pic nic all’ombra delle grandi piante insieme a tutta la famiglia…

Molte immagini di questi luoghi, così come diversi racconti, sono reperibili nel sito dell’associazione culturale Ippocampo Viserba, di cui mi vanto di essere fra i soci attivi, che da tre anni sta svolgendo un prezioso lavoro di recuperto della memoria del territorio.

Fra gli autori viserbesi che hanno raccontato questo luogo, mi piace citare il professor Enea Bernardi, noto pedagogista ed educatore scomparso nel 1998. Ecco qui di seguito alcune sue pagine.

Dalla Fossa dei Mulini alla Corderia

di Enea Bernardi, 1982

da “Storie su due piedi. Immagini della Memoria” (stampato in proprio, 1995)

 “C’era una volta un canale chiamato, al tempo degli avi, “La Viserba” e poi “Fossa dei Mulini”, dove nuotavano tinche, trote, anguille. Attraversava il paese, in cui era difficile mettere insieme pranzo e cena, e prima di sfociare in mare offriva un riparo alle battane e alle lance dei marinai.

Era il luogo goduto dai pescatori e dai bambini in cerca di emozioni. I ragazzi più grandi, che l’avevano già esplorato, si compiacevano dell’ammirazione di tutti e suscitavano invidia. Il gruppo al quale appartenevo stabilì allora di dare inizio alle nostre spedizioni.

Ed era diventato un rituale estivo. Si attendeva appostati che il marinaio, vinto dalla calura del pomeriggio, si appisolasse all’ombra del capanno, per sottrargli il moscone che teneva nel canale senza remi. Il vecchio, sfingeo nel volto abbrunito, quasi certamente fingeva di dormire, sapeva dei nostri armeggi ma stava al gioco. Forse la nostra intrusione maldestra portava nella sua solitudine un motivo insolito, che lo divertiva.

Partivamo, guardinghi e silenziosi, distesi sopra i galleggianti che portavano inciso il motto “Audaces Fortuna Iuvat”, con l’acqua che ci lambiva il volto mentre oltrepassavamo i ponti bassi delle strade. Si spingeva a fatica con una lunga pertica un’imbarcazione, appesantita dal legno intriso d’acqua, che a noi sembrava una corazzata. Si navigava fieri in mezzo alle lance ormeggiate sotto un tunnel di alberi, in un canale vivo con gli argini fasciati dal legno, e cantavamo a squarciagola.

Lasciavamo la “Torretta di Tognacci”, l’ultima casa dell’abitato, con la sensazione di avere superato le Colonne d’Ercole. Dopo il ponte della ferrovia risalivamo il corso della fossa in una zona deserta, nella quale l’unico fabbricato era il macello a volte risonante di muggiti che mettevano i brividi.

Più avanti la nostra audacia veniva messa a dura prova dai banchi di fango che spesso imprigionavano l’imbarcazione, in mezzo ai canneti che intricavano il passaggio e davano affanno e smarrimento perché chiudevano ogni orizzonte.

Ci inoltravamo fino al mulino dei Leli, allora con le macine ronzanti, oltre il quale sorgeva la vecchia corderia.

Si vedeva appena la punta della ciminiera e la panciuta cisterna dell’acqua ma non la fabbrica che, da quella parte, era cinta da alte mura e da una folta barriera di alberi lungo l’argine del canale fino a monte. Assomigliava ad una fortezza assediata dal verde di una foresta aggressiva in cui regnavano indisturbati bisce e grandi uccelli. Con un abbraccio aggrovigliato l’edera stringeva tronchi secolari di acacie, olmi, pioppi.

Qui, per noi, incominciava l’ignoto insondabile e finiva il viaggio breve che bruciava emozioni ed aspettative segrete. Al ritorno restava il problema di ormeggiare il moscone al suo posto. Il vecchio pescatore ci aspettava lassù in alto sulla banchina della palata, mimava un inseguimento e minacciava in tono semiserio “se vi prendo un’altra volta, vi butto in bocca ai pesci!”. E noi con aria candida rigettavamo la colpa sulla risacca che aveva sciolto l’imbarcazione e che, per non lasciarla alla deriva, eravamo saliti sopra con l’intenzione di attraccarla meglio. A questo punto il marinaio si incattiviva e urlava: “Vi cavo le budella e le metto a seccare sulla rete!”

Un po’ spaventati ci buttavamo in acqua, abbandonando il moscone, e ci mettevamo in salvo sull’altro molo.

Le esplorazioni della Fossa dei Mulini ci fecero sognare per due stagioni approdi in terre sconosciute, naufragi, attacchi di animali e di uomini selvaggi e la nostra onnipotenza paragonabile a quella degli eroi dell’Avventuroso. Alla lunga, tuttavia, con la nostra crescita, questi percorsi finirono per diventare abbastanza prevedibili; escluso il bosco della corderia che a distanza di mezzo secolo resta sempre un’incognita impraticabile a causa degli ordigni esplosivi disseminati dai tedeschi in ritirata. Crebbe con l‘età il bisogno di rinnovare sensazioni ed obiettivi.

La nostra fu l’ultima generazione che risalì il canale, perché con l’arrivo della ricchezza la Fossa dei Mulini diventò una fetida cloaca a cielo aperto con l’unica funzione di scaricare in mare la merda indigena e forestiera. Il boom turistico aveva imbastardito l’etnia e affievolito l’orgoglioso senso di appartenenza al nucleo originario; così decadde la tradizione e l’intelligente buon senso degli anziani insieme al pudore civile.

Il miraggio dell’Eldorado ebbe il sopravvento e trasformò le casette ingentilite da fregi e dimensioni umane in alti contenitori anonimi, e le viuzze luminose in asfittici budelli.

Da un’estate all’altra il canale scomparve, gli misero sopra un coperchio di cemento e divenne un corridoio fra i retro delle case. I bambini di oggi hanno già perso la memoria della Fossa dei Mulini. Passandoci sopra sentiranno soltanto una gran puzza.

 

“Tempo dedicato” per un regalo fatto con le mie mani

Dedicare tempo agli amici significa anche creare qualcosa di originale solo per loro. Certo, andare a comprare un regalino in un negozio o in una bancarella richiede sempre tempo (e spesa).

Ma vuoi mettere, se una mezzora la impieghi sferruzzando, tagliando o incollando un oggetto destinato proprio a lei o a lui, a quella persona che, mentre crei, non riesci a toglierti dalla testa e dal cuore?

“Tempo dedicato” è un po’ più prezioso: vale un abbraccio grande. Continua a leggere

A Natale regala un libro che profuma di Romagna.

Un regalo speciale e originale a soli 10 euro?
Eccolo!

Adattissimo per mamme, nonne e zie e per chiunque ami le tradizioni, la Romagna, il dialetto.

Il mio libro “Trama e ordito” si può acquistare qui: Continua a leggere

Ecco a voi “Vis a Vis”: il giornale di Viserba e Viserbella.

La Terra delle Acque, i suoi volti, le storie, i luoghi… Ieri oggi e domani.

Vis a Vis” è la nuova rivista, di cui sono “capo redattore” – uauh! – Continua a leggere

Viserba, il delitto Pascoli e Pajarèn (detto Bigecca)

“Primo verdetto di colpevolezza dopo 145 anni per l’omicidio di Ruggero Pascoli, il padre del poeta. E’ stato rovesciato il verdetto del 2001: per la prima volta il celebre omicidio Pascoli ha tre nomi: Pietro Cacciaguerra, mandante, Michele Della Rocca e Luigi Pagliarani, esecutori…”

E’ cronaca di questi giorni. Il tribunale, dopo 145 anni, ha finalmente condannato coloro che, al tempo, furono solo sospettati.

Una storia, il delitto Pascoli, che s’intreccia in varia maniera con quella di Viserba.

Il primo riferimento è su quel Pagliarani (detto “Bigecca”) indicato come uno dei due sicari. Pare fosse un avo del nostro poeta Elio Pagliarani, come raccontato da quest’ultimo nell’autobiografia (Pro-memoria a Liarosa) nel brano riportato qui sotto.

L’altro riferimento (un intreccio davvero intrigante…) è con la vicenda della famiglia della mia amica viserbese Donata Ciavatti, che nel libro “La forza del coraggio” racconta la storia del bisnonno, Pietro Giani, condannato innocente per il delitto di un fattore della tenuta dei Torlonia. Dopo aver passato 28 anni alla catena Giani fu liberato grazie alla confessione del vero colpevole. Donata ipotizza, nel suo libro, che il bisnonno fosse stato incarcerato per il delitto Pascoli (i tempi e i luoghi corrispondevano), ma non è mai riuscita ad approfondire per la sparizione di alcuni documenti giudiziari.

Ma forse il testo di Elio Pagliarani porta luce sull’ipotesi di Donata: che il delitto del fattore fosse quello di Gori, l’altra vittima citata nel Pro-memoria?

Lancio a chi di dovere (o a chi “di piacere”) la sfida di un ulteriore approfondimento di queste ricerche storiche, mentre vi lascio alla lettura del capitolo del Pro-memoria in cui Elio parla dei Pajarèn e di Mariù Pascoli.

“I tre rami dei Pagliarani. Mariù Pascoli”.

(di Elio Pagliarani, da “Pro-memoria a Liarosa, Marsilio Editore 2011).

Come mi spiegò una ventina d’anni fa il fratello di Tonino Guerra, son tre i rami dei Pagliarani diramatisi dalla zona di Sant’Arcangelo; quello di ricchi o benestanti, detto dagli amici non ricordo più se Pajarèn ‘dla Chesa o Pajarèn ‘dla Piaza, perché avevano case nella piazza principale di Sant’Arcangelo, mentre dai nemici il loro capofamiglia era detto Pajarèn e’ Brot, Pagliarani il Brutto, perché evidentemente non abbondavano in prestanza; i Pagliarani poveri erano divisi in due sottogruppi, quelli poveri e bonaccioni o lamentosi erano chiamati Pajarèn Bisugnèn (bisognevole?, bisognoso?), mentre quelli da prendere con le molle erano i Pajarèn S-ciupàz (da schioppo): dunque non soltanto mio nonno, ma anch’io sono un Pajarèn S-ciupàz; fino a vent’anni fa credevo che fosse soltanto il soprannome del nonno, invece Guerra mi spiegò bene che riguarda tutto un ramo, come ho detto. E credo proprio che fosse il ramo così tanto odiato da Mariù Pascoli.

I miei Pagliarani stavano a Casale almeno dal Seicento, mezzadri dei frati del convento (dunque dimezzati anch’essi, ma senza l’onta di un padrone diretto, fisicamente concreto e concretizzabile) e il nonno Cesare verso la fine dell’Ottocento si fece dare la sua parte di stime e uscì dalla  terra, diventando commerciante di cavalli e di bestiame in genere. Casale è a due o tre chilometri da San Mauro, e ci confina, e Mariù Pascoli come ho detto odiava talmente i Pagliarani da subire un giudizio e pagare una penale di venticinque lire per essersi rifiutati, lei, e assecondata da Giovanni, di ricevere in casa loro a Castelvecchio di Barga una domestica, Nina, fatta assumere dai loro parenti Pascoli in Romagna, appena seppero che faceva di cognome Pagliarani. E certo un Pagliarani, Luigi, detto “Bigecca” fu indiziato, con altri e poi prosciolto in istruttoria, nelle indagini sull’assassinio di Ruggero Pascoli, come racconta appunto Mariù nelle sue memorie. Me lo segnalò Mario Luzi, una volta che lo incontrai (in Georgia, Urss, nel ’66), e appena mi fu possibile cercai di documentarmi sulla faccenda. Intanto ero sicuro che se la mia famiglia fosse stata coinvolta nell’assassinio del Pascoli l’avrei saputo, se non altro perché a Viserba abitava quel chiacchierone arteriosclerotico del ferroviere in pensione Tognacci, di San Mauro, e grande amico della famiglia Pascoli (oltre che padre di quel mio professore di disegno). Lui che allevava pere così grandi (una volta – raccontava – chiamò la moglie, e quella rispose immediatamente e il suono della voce gli fece capire che era vicinissima, ma lui non riusciva a vederla: per forza, stava nascosta dietro una pera!) avrebbe gridato dietro “Assassino!” anche a me bambino, quando passavo vicino a casa sua, fossimo stati in qualche modo implicati nella faccenda (un sacerdote Tognacci battezzò proprio Giovanni e altri figli di Ruggero Pascoli).

Quanto a Bigecca, c’è da dire che fra quelli che lo scagioneranno c’era anche Raffaele Pascoli, detto “Felino” fratello minore di Giovanni, e dico il fratello minore buono, non la pecora nera della famiglia Pascoli, cioè Alessandro Giuseppe, che aveva tre soprannomi, come si legge nelle memorie di Mariù: nei momenti buoni era detto Peppe, nei momenti così “Lascaro” e nei momenti peggiori “Paglierani” (qui con la ‘e’) anche perché aveva, secondo Mariù, anche la colpa di aver sposato una vedova Pagliarani con relativi figli di primo letto.

La verità più probabile di questo odio di Mariù è invece dovuto al fatto, secondo me, che Luigi e altri Pagliarani erano o erano stati compagni di osteria e di discorsi socialisteggianti, non solo dei fratelli minori Raffaele e Alessandro Giuseppe, ma anche dello stesso Giovanni, il quale anche se probabilmente non bazzicò mai osterie ebbe da giovane trascorsi e amicizie anarchiche e socialiste, come sappiamo, e si beccò anche il carcere a Bologna semplicemente per essere andato ad assistere al processo di Andrea Costa.

A proposito del delitto Pascoli voglio anche ricordare che in quel periodo non fu ucciso soltanto il fattore-capo o intendente Ruggero Pascoli, ma anche un fattore Gori, sempre alla tenuta La Torre dei Torlonia: anche i Gori fecero a suo tempo le loro indagini e il risultato fu il medesimo di quello di un’inchiesta ufficiale o ufficiosa sul delitto Pascoli: certi mesi dell’anno i mezzadri della tenuta La Torre usavano arrotondare le loro entrate facendo un notturno e ovviamente clandestino contrabbando di sale delle vicine saline di Cervia, e a un certo punto Ruggero Pascoli volle impedirlo, sia perché la faccenda era contraria alle legge sia perché i contadini rendevano di meno nel lavoro dei campi in quel periodo in cui la notte facevamo i contrabbandieri: in questo clima maturò l’assassinio dei fattori Pascoli prima e di Gori poi, ci sia stato o no qualcuno che – come ha sempre pensato Giovanni Pascoli – abbia manovrato la faccenda per carpire l’importante incarico che Ruggero Pascoli aveva nella tenuta dei Torlonia.