Sant’Antonio da Rimini, fra miracoli e… paganelli

A grande richiesta di Placida Signora, oggi racconto una storia che forse neppure tutti i riminesi conoscono.

Uno dei santi più amati e venerati nel mondo, si sa, è Antonio da Padova.
“Potremmo ragionevolmente chiamarlo anche sant’Antonio da Rimini”, disse qualche anno fa un ministro portoghese invitato in città per una mostra artistica organizzata dal Meeting di CL. 
Nato a Lisbona intorno al 1195, figlio di una nobile famiglia, il giovane e colto Fernando (così era stato battezzato) decise di seguire le orme di san Francesco a Coimbra, prendendo il nome di Antonio. Giunto in Italia in seguito a vicende drammatiche, nel 1221 incontrò il Poverello d’Assisi, che,  ammirato dalla sua profonda dottrina, lo invierà in Romagna, a Montepaolo, vicino a Forlì. Lì rimase qualche tempo alternando preghiere, lavoro e studio. Una predica improvvisata, in occasione di un’ordinazione sacerdotale (era venuto a mancare il predicatore ufficiale), impose all’attenzione di tutti la sua profonda cultura, la capacità oratoria e la ricchezza interiore.
All’indomani, lasciato l’eremo di Montepaolo, il frate era già missionario itinerante e predicatore. Come poteva non dirigersi verso Rimini, città già allora ribelle, che rifiutava di ascoltare la Parola di Dio (eh, si sa, come sono ‘sti romagnoli, anarchici e comunisti…)?

Nonostante la sua ars oratoria e la sua cultura (si racconta che non ci fosse nessuno più convincente di lui nel convertire gli eretici), i riminesi non ne vollero proprio sapere. Facevano orecchie da mercante (in effetti, lo sono sempre stati, mercanti, marinai, albergatori, cementificatori…).

Disperato, o forse in segno di sfida, Antonio si recò sulla riva del mare, nei pressi della foce del Marecchia. A quei tempi era più arretrata rispetto ad oggi: vicino all’attuale ponte della Resistenza, dove poi, nel Seicento, venne costruita una chiesetta dedicata al Santo, danneggiata da un cannoneggiamento austriaco nel 1915 e definitivamente distrutta dai bombardamenti aerei del 1944.
Qui avvenne il primo miracolo. Come si legge nella “Franceschina” di Ubaldo Valaperta (testo dialettale di fine Ottocento) “alcuni pesci aprivano la bocca soctometendo lo capo, dimostrando che intendevano, et facevano segni, de laudare et ringraziare Dio come meglio sapevano.”

Mi sorge un dubbio (da “eretica”, Dio mi perdoni!): non è che questo fu il primo episodio di eutrofizzazione marina, con pesci boccheggianti come si videro una ventina d’anni fa ai tempi delle mucillagini?
Secondo la leggenda, comunque, soltanto un pesce non salì ad ascoltare la predica: era il paganello (un pagano fra tanti muti credenti!).
Per l’altro miracolo riminese ci si deve spostare invece in pieno centro.

Nell’attuale piazza Tre Martiri, di fronte al Santuario dedicato a san Francesco di Paola (detto “dei Paolotti”) sorge il Tempietto di Bramante eretto nel XV secolo in onore di sant’Antonio.
Qui, si dice, avvenne il miracolo della mula (in effetti altre città si contendono sia questo, sia il miracolo dei pesci…).
Ritroviamo come protagonisti, di nuovo, gli eretici riminesi, che non credevano che Gesù fosse veramente presente nell’ostia consacrata. Antonio ne discuteva in piazza con un contadino, che non riusciva a credere ed era fermamente convinto delle sue opinioni. Il frate era altrettanto fermo nelle sue idee. I due discutevano animatamente da parecchio tempo quando il contadino gli lanciò una sfida: “Lascerò la mia mula senza cibo per tre giorni e poi ci incontreremo. Io le offrirò del fieno e tu le offrirai l’ostia. Se la mula sceglierà quest’ultima, io crederò a quello che dici”.
Dopo tre giorni, mentre Antonio diceva Messa, il contadino arrivò con la mula affamata. Il Santo prese l’ostia in mano e la alzò al cielo. La mula non guardò nemmeno il fieno ed invece si inginocchiò di fronte all’ostia.
Morale: noi riminesi siamo più zucconi dei somari e dei pesci… Non c’è riuscito neanche sant’Antonio, a cambiarci. Se n’è fuggito presto a Padova, lasciandoci a mollo nel nostro brodo. Come paganelli.

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