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E’ b-dòc arfàt

Diciamo la verità: una cosa è definire qualcuno “pidocchio rifatto”. Altra è sentenziare “bdòc arfàt”.
Anche in questo caso l’uso della lingua madre dà un’idea ben più precisa, diretta, piena.
“E’ bdòc arfàt” si contrappone al vero signore che non dà a vedere di esserlo.
No, no. Il “nostro” non conosce la riservatezza e il limite: deve assolutamente far capire agli altri che lui (o lei), sì che è ricco e può permettersi questo e quello. Mi pare di sentirlo: “Io, a te, ti compro e ti vendo tutte le volte che mi pare…”.
Quanti aneddoti si potrebbero raccontare su questi esemplari! Uno è rimasto ben stampato nella mia mente. Risale a una ventina di anni fa, in un ristorante della zona, per la festa di pensionamento del mio capo-ufficio. Fra gli invitati, quindi, oltre a noi semplici travet, c’erano anche alcuni consulenti del lavoro e commercialisti. Non per generalizzare sulla categoria professionale, per carità, ma proprio uno di questi, arrivato con una strombazzante auto fuoriserie ed elegantemente incravattato, uno di quelli che per anni ci aveva guardato dall’alto al basso, confermò in me l’assunto del “bdòc arfàt”.
Dopo un paio di portate e qualche bicchiere di vino che avevano aiutato a scaldare l’atmosfera conviviale fra noi impiegatucoli e loro, i vip, iniziammo a discutere di cibi strani: rane, lumache… et similia.
“Buone, le lumache! – dico io – I francesi sono maestri, a cucinarle. A me piacciono soprattutto ‘à la bourguignonne’. Sì, proprio buone!”.
“Anche a me piacciono – dice il ‘bdòc arfat’ di turno – Però, sa, signora, ogni volta che vado a Parigi, io non vado mica a mangiarle alla bourguignonne, ma a Versailles…”.
Ah, ah! “Ogni volta che vado a Parigi…”.
Ma fam e’ piasér: a sò piò sgnòura mé, ènca senza la machinouna e se a Parigi a i sò andèda snò una vòlta! (ma fammi il piacere: sono più signora io anche senza il macchinone e se a Parigi ci sono andata solo una volta!).
T-ci propri un bdòc arfàt!

Passatelli: profumo della memoria

Il ferro dei passatelli

 

 

 

 

 

 

 

 

“Meraviglia da non perdere – scrive Michele Marziani nel suo libro “La cucina riminese tra terra e mare” (Panozzo Editore Rimini 2005) – sono i passatelli, sorta di meravigliosi vermetti a base di pangrattato, uova, parmigiano, noce moscata e scorzetta di limone. Una fantastica minestra dei giorni di festa – si mangiavano tradizionalmente a Pasqua nel riminese e nel giorno dell’Epifania in Valconca – da gustare rigorosamente in brodo. Stupendi anche col brodo di pesce fatto con gli umili paganelli dell’Adriatico. Oggi sono numerose le versioni asciutte che si incontrano nella ristorazione. (…)
Chi ha avuto la fortuna di essere bambino in una famiglia dove i passatelli erano di casa, la memoria la conserva nel naso, perché il passatello è sentore di buono, di formaggio, di noce moscata, di limone che vaga nell’aria mentre bolle il brodo. Ma quello che ancor più ci colpiva – e colpisce – l’immaginario infantile è il ferro per passatelli, una sorta di schiumarola con i manici che serve per realizzare i sottili vermicelli d’impasto profumato. Un oggetto oscuro, misterioso, del quale è difficile comprendere l’uso se non vedendolo utilizzare. E le cucine, un tempo, si dividevano tra quelle dotate dell’attrezzo in questione e quelle di chi, tapino, s’arrangiava con lo schiacciapatate, fino ad almeno un decennio fa in dotazione in tutte le famiglie. Oggi il ferro per passatelli fa parte degli oggetti della memoria, del modernariato rurale. Un po’ come le teglie d’argilla per cuocere la piada.”

In effetti, anch’io sono una di quelle arzdore tapine che non sanno usare il vecchio ferro (che comunque è appeso in bella mostra alla parete della cucina) e che si arrangiano col passapatate.

La ricetta più usata, a casa mia, è col brodo di cappone o gallina, come da stretta tradizione, ma qualche volta ho provato, con successo, il brodo di pesce.

Prima di trascrivere la ricetta, vi segnalo un video di Youtube dove potete ammirare la vera “arte romagnola del passatello” così come la propone un albergo di Riccione.

Buon appetito!

Passatelli romagnoli

Ingredienti

  • 125 grammi di pane grattugiato (di tipo comune)
  • 1 cucchiaio di farina
  • scorza grattugiata di mezzo limone
  • 200 grammi di Parmigiano Reggiano grattugiato
  • un tuorlo d’uovo
  • due uova intere
  • un pizzico di noce moscata grattugiata
  • un pizzico di sale

Preparazione
Si mescolano tutti gli ingredienti fino ad ottenere una palla omogenea e compatta. La si lascia riposare anche un’oretta. Quando il brodo bolle, con l’apposito attrezzo di formano i passatelli, che vanno fatti cadere direttamente nella pentola.
Sono pronti quando vengono a galla.
Ottimi anche riscaldati, il giorno dopo.

Buona sera, sgnòr dutòur!

Una zirudella di oggi dedicata al dottor Iader Garavina, medico di famiglia a Gatteo a Mare, nonché sindaco di Gambettola (ispirata da Walter, Gigliola e gli altri amici “mangioni”).

 

Dialogo fra il dottore-sindaco e Walter, uno dei suoi affezionati mutuati di Gatteo a Mare

Buona séra, sgnòr dutòur, 

à so vnoù par c’la rizèta.

 

Entra pure caro mio! 

Ma che hai fatto, Santo Dio?

T-ci piò ròs d’un galinàz!

 

Mé a ne sò, sgnòr dutòur,

u’m è vnoù un mèl ad pènza,

che s’an s-ciòp pòc ui amènca.

 

Vieni qua sul mio lettino

e stenditi sul fianco.

Ma che panza, che gonfiore!

T’avevo detto riso in bianco!

 

E’ reis a l’ò magné,

ma u’n gné stè gnent da fè,

a l’ò fat s’è sug ad sèpia

e s’la cunsérva d’la mi moi.

E par sgond, c’la brèva dòna,

l’a m’à còt d’la panzètta

e tré pìdi tòndi tòndi,

c’um pè ancòura ad santéi l’udòur!

E par stè un po’ lizìr,

ò magnè du piat ad tréppa,

c’a l’ò sugnèda ènca stanòta.

 

Ma che hai fatto, disgraziato!

Dieta, dieta, avevo detto!

Col diabete non si scherza,

la pressione poi si alza!

 

Purtì pazìnzia, sgnòr dutòur.

S’ai vléiv fè, s’a sò un zucòun!

P’r’una vòlta, staséim a santéi,

vnéi a magné a chèsa mi!

A’gli abéti ai pensarém.

Staséira a vlém magnè tòt insén?

Gulmàz, almadìra o falàsc: combustibile a costo zero.

Si andava a garavlè anche sulla spiaggia. Non grappoletti d’uva, né olive cadute in terra o spighe rimaste solitarie.

In questo caso si raccoglieva “e’ gulmàz“. Che, in quel di Gatteo a Mare, nei pressi della foce dello storico fiume Rubicone, si chiamava piuttosto “falàsc” (come mi segnala il giovane ricercatore Andrea Pari).

In ogni caso, si tratta del medesimo materiale, tuttora disponibile… a costo zero.

Curiosi? Ecco la descrizione di gulmàz (dal Dizionario Romagnolo Ragionato di Gianni Quondamatteo):

– mar. come falòpa, cioè il materiale che il mare getta e deposita sulla spiaggia, specie dopo una grossa burrasca. Sono canne, rami, detriti di legno che la povera gente raccoglie e mette ad asciugare , per usare poi come combustibile. Il tutto ha anche il nome di gramegna.  A Riccione dicono almadìra.

 

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