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Le cose che piacciono a me: “curarsi a casa dopo il trapianto di cellule staminali”

Sono quelle cose di cui speri di non aver mai bisogno.
Ma sapere che qualcuno ci ha pensato rasserena il futuro non solo mio e dei miei cari, ma di tutti i miei concittadini (e dintorni).
RiminiAIL,l’associazione contro le leucemie, linfomi-mieloma della provincia di Rimini, per la quale curo il notiziario RiminiAIL Notizie, sostiene il progetto. Ecco il mio articolo apparso sull’ultimo numero del giornale, quello natalizio, distribuito in tutte le piazze insieme alle tradizionali Stelle di Natale AIL durante lo scorso fine settimana.


Dal 1° ottobre di quest’anno una nuova figura specialistica è entrata a far parte del team sanitario che opera presso l’Ematologia dell’Infermi. Si tratta della dottoressa Giulia Tolomelli, giovane ematologa proveniente dall’Istituto Seragnoli di Bologna, ora operativa presso l’ospedale riminese grazie al sostegno finanziario di RiminiAIL.

La dottoressa Tolomelli si occupa in maniera specifica di un progetto, altamente innovativo, che cambierà la vita a molti pazienti e alle loro famiglie: “Gestione in follow-up dei pazienti sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali (HSCT) da donatore”. Continua a leggere

Masha, Befana e Babushka

Sarà l’effetto “nonnitudine”, sarà che con Princess number one ha imparato qualcosa (non tanto, eh!) sull’animazione delle immagini in 3D, saranno le musiche incalzanti, di vario genere e coinvolgenti… insomma, Cristella da qualche mese è una grandissima fan della serie animata “Masha e Orso”.

foto-masha-orso

 

 

 

 

Il piccolo Federico si incanta davanti alla tv o al pc, non batte ciglio. Già da quando aveva otto/nove mesi le immagini colorate e le battute della piccola bimba russa lo affascinano. Spesso interagisce con una bella risata.

L’ideatore di Masha e Orso si è ispirato a una fiaba tradizionale russa, ma anche ad una bimba vera che durante una sua vacanza in Crimea era sua vicina di ombrellone: terribile, inarrestabile, dispettosa con tutti.

In occasione dell’ormai tradizionale uscita befanesca di Cristella (vedi foto in “Chi sono”), lo scorso 6 gennaio i bambini che hanno partecipato alla festa organizzata all’Oratorio Marvelli della parrocchia di Viserba Mare hanno saputo in esclusiva un segreto su Masha.

I loro occhi si spalancavano, mentre il racconto fantastico si sviluppava, come a dire “Sì, può essere vero; ma guarda un po’ com’è esperta di storie animate questa signora che ci vuol far credere di essere la Befana vera!”

In effetti è meno credibile la persona “fisica” di Cristella/Befana, con i suoi ottanta chili di peso, il naso senza gibbosità e il sorriso aperto e con tutti i denti, di quella raccontata nell’occasione.

Ebbene sì, diamo anche ai lettori di questo blog l’esclusiva sulla vera storia, vera vera,di Masha: la piccola bimba vestita di rosa e il suo amico Orso vivono nel bosco, così come vediamo in Tv, normalmente, tra mille avventure e dispetti e dolcezze da cucinare e pesci da pescare e case da ristrutturale una, due volte e forse ancor di più… Questa, però, è “solo” la vita quotidiana di quasi tutti i giorni. Infatti ci sono due giornate, il 5 e il 6 gennaio di ogni anno, in cui Masha e Orso fanno un salto nel tempo e… diventano ciò che sono in realtà: la Befana e il suo aiutante!

L’accostamento con la tradizione della Befana (tutta italiana) non è casuale, visto che una leggenda simile si riscontra in Russia, dove la vecchia Babushka pare essere imparentata con la nostra vecchina. E Babushka indossa gli abiti e i copricapo della tradizione, proprio come fa la piccola Masha.

babushka

Sì si! Questa è un’esclusiva che i bimbi viserbesi hanno avuto l’onore di conoscere per primi: Masha non è altri che la Befana quand’era piccola.

Sssst… Non ditelo a nessun altro, però!

La mia coperta multicolore

Favola scritta nel 2002, quando la vecchia lira lasciò il posto all’euro. Le monetine si raccoglievano per beneficienza: tanti spiccioli come piccole gocce che diventavano oceano…

A Rimini in questi giorni c’è un’iniziativa intitolata “La lana scalda il cuore”, a favore dell’associazione “Rompi il silenzio” che opera contro la violenza sulle donne. Che siano stati ispirati dalla mia favola?????
LaLana
La Befana e la coperta che scioglie il ghiaccio.
Era un venerdì diciassette quando Gertrude, la vecchia Strega del Nord, lanciò sul paese di Mercandé l’incantesimo peggiore che c’è: tutte le persone che incontravano il suo sguardo incominciavano subito a tremare e nel giro di poche ore si trasformavano in statue di ghiaccio.
Nessuno riuscì a scoprire il motivo della sua malvagità; qualcuno pensò ad una delusione d’amore, ricordando che Gertrude, in gioventù, era stata fidanzata con Merlino, che l’aveva poi lasciata per ritirarsi, disperato, in un eremo in cima alla montagna, in cerca di tranquillità.
Per un motivo o per l’altro, l’incantesimo fece molte vittime a Mercandé: si potevano ormai trovare ghiaccioli non solo nei bar e nei frigoriferi, ma agli angoli delle strade, nelle case, nelle scuole…
Invece che un cono “panna e cioccolato”, nelle gelaterie si poteva ordinare “maestre al pistacchio” e “postini stracciatelli”. Avrebbe anche potuto essere una situazione divertente, se non fosse che i poveretti presi di mira dalla Strega incominciarono a stufarsi del brutto scherzo, perché ormai il freddo non li lasciava mai.
Decisero così di lanciare un appello al mondo intero:
“Per favore, chi conosce l’antidoto contro tutto questo gelo, faccia qualcosa per noi!”
Furono i bambini del paese a darsi da fare per primi per salvare i loro compaesani.
Escogitarono subito un buon sistema per cercare notizie su come poter aiutare quei poveri ghiaccioli: in un bel pomeriggio di sole, mentre c’era l’arcobaleno, fecero partire dal cortile della scuola di Mercandé cinquecentocinquantacinquemila palloncini colorati dove avevano attaccato un biglietto che spiegava la faccenda. Scritto in duecentoventidue lingue, naturalmente, perché l’appello doveva arrivare al mondo intero.
Ed, infatti, nel giro di pochi giorni, aiutati dai quarantaquattro venti figli di Eolo, i palloncini giunsero dappertutto: in Africa e in Asia, a Bengasi e a Timbuktu, a Madrid e a Lisbona, a Calcutta e a Pechino, a Mosca e a Moscerino, a Shanghai e a Miramare.
Ovunque furono raccolti dai bambini del luogo, che capirono subito l’importanza del loro intervento.
Si indirono riunioni negli igloo, nelle case, nei palazzi, nelle capanne, nelle tende…
Ognuno aveva una sua soluzione da proporre e quando ciascun gruppo di bambini aveva individuato la migliore, la scriveva su di un biglietto e la rimandava al mittente, verso il paese di Mercandé, sempre con i soliti palloncini colorati.
Fu così che dopo una settimana, sulla piazza che era ormai trasformata in una pista di pattinaggio, planarono due messaggi.
Il primo biglietto era attaccato ad un palloncino arancione e veniva dalle montagne della Lombardia.
Lo raccolse Matilde, una bimbetta di sette anni che aveva appena imparato a leggere.
“Cari amici” – c’era scritto – “vicino al nostro paese c’è la casa della Befana. Ci hanno detto le nostre nonne che quando non è indaffarata per portare i doni ai bambini, questa Befana lavora un tipo di lana speciale, ricavata da pecore molto rare che vivono con lei. Non sono bianche o nere, ma colorate. E il loro pelo è così caldo che può sciogliere tutti i ghiacci del mondo. L’unico problema è che la Befana durante l’anno non regala nulla, ma dà la sua preziosa lana in cambio di denaro, che le servirà poi per comprare i giocattoli da portare ai bambini in gennaio.”
“Certo che se si potesse avere quella lana…” – disse Nina, la cugina di Matilde, che era stata ad ascoltare con attenzione – “Con l’uncinetto potremmo fare tante coperte da portare a tutti quelli che sono stati ghiacciati dalla Strega Gertrude. Loro si scalderebbero ed il gelo si scioglierebbe di sicuro!”
Legato al secondo palloncino, quello verde e blu, c’era un foglietto con una specie di listino-prezzi.

Un centimetro di filo per ogni lira io ti darò.
Con dieci soldi riesci solo a fare un tondino,
Ma se cinquanta me ne dai, ancora più bravo sarai!
Ci farai un bel cerchietto, lavorando con l’uncinetto.
Dammi cento lire e vedrai che vien fuori una stella.
Se più grande ancora la vorrai,
le duecento tutte d’oro mi darai.
Ma se i soldini son cinquecento,
ti do tanta lana da fare due fiori
Grandi e belli, di quattro o cinque colori.
E con la moneta da mille lire, ti do gomitoli a non finire…

“Ma come faremo?” – dissero i bambini in coro – “Noi i soldi non li abbiamo proprio!”
Giacomo, il più grandicello, ebbe un’idea:
“Chiediamo a tutti i bambini italiani di mandare alla Befana le monetine del loro salvadanaio. Anche quelle più piccole. Tutte insieme, basteranno a comprare tanta lana da farci mille fiori con l’uncinetto, grandi e piccoli, di tutti i colori. Poi li cuciremo insieme finché ricaveremo le coperte sufficienti per scaldare le vittime di quell’antipatica di Gertrude!”
“Che bella idea!” – disse la piccola Emma – “Mandiamo subito trecentotrentatre palloncini per chiedere la collaborazione dei ragazzi italiani! Mi ha raccontato la mamma che le loro vecchie lire fra qualche giorno non avranno più valore e saranno dimenticate, per lasciar posto a nuove monete. Cercando nei fondi dei cassetti, delle tasche e dei salvadanai, tutti insieme ci aiuteranno a costruire il miglior antidoto contro i dispetti di quella brutta Strega.”
E così il cielo di Mercandé si colorò di nuovo di palloncini variopinti: i messaggi con la richiesta di aiuto partirono per le Alpi e per gli Appennini, per Roma e per Canicattì (che nessuno sa dov’è, ma sta sempre lì).
Un biglietto arrivò anche a Rimini: un palloncino si impigliò, col suo filo, nella mano della statua del Papa, in Piazza Cavour. Molti bambini, curiosi, seguirono la scena, finché un piccione gentile prese fra il suo becco la cordicella e portò a terra il messaggio.
I ragazzi non persero tempo: capirono subito che l’incantesimo di Mercandé si poteva annullare anche con il loro contributo. Marco trovò subito nella tasca dei jeans tre monete da cinquecento e due da cento. Veronica portò in piazza il suo salvadanaio, dov’erano rimaste quattro monete da cinquanta e cinque da duecento. Cinzia chiese alla mamma qualche spicciolino e Dora trovò duecento lire nel fondo dello zainetto.
Tutti insieme, raccolsero in poco tempo un bel gruzzoletto di monetine e le mandarono subito, con pacco postale raccomandato cinque volte, ai bambini della Lombardia, che andarono di corsa alla casa delle Befana.
Prima di entrare, dovettero recitare una filastrocca, perché quella era l’unica maniera per farsi aprire la porta.

Conosci la Befana che vende la lana?
In febbraio la fila e a marzo la dipana,
In aprile e maggio, il riposo è un miraggio.
Un gomitolo sopra, un gomitolo sotto,
Con luglio ed agosto ne ha fatti trentotto.
In settembre ne ha piene le tasche,
Gomitoli qua, gomitoli là…
Mille colori di morbidi fili.
Dritti, contorti e pure ritorti,
un arcobaleno più caldo non c’è.
In ottobre son già piene tutte le ceste.
Accanto al camino, nel grigio novembre,
la dolce nonnina sferruzza, sera e mattina.
Diritto e rovescio, trecce e filé,
fa pure le frange col macramè.
E così, in dicembre, che fa un bel freddino,
tutti vorremmo il suo regalino.
Ma solo ai bimbi che per scaldarsi non han che la mamma
la Befana porta una coperta fatta da lei.
Quando? In gennaio: la notte del sei!

I soldi bastarono per comprare dieci sacchi pieni di lana di tutti i colori, che i bambini italiani mandarono subito a Mercandé, utilizzando uno stormo di piccioni viaggiatori.
Là i ragazzi stavano aspettando con impazienza, armati di aghi e uncinetti.
Matilde dirigeva i lavori e dava le istruzioni:
“Si avvia una catenella di sei maglie e si chiude a cerchio, poi si fa un giro con dodici maglie basse, e poi un altro giro con ventiquattro maglie alte. Un pippiolino qui e un archetto là…”
In pochissime ore ogni bambino aveva ricavato, dai gomitoli mandati dall’Italia, tantissime rondelline di lana.
Rosanna e Adonella continuavano incessantemente a cucire i fiori fra di loro, in modo da ricavare tante coperte belle calde.
Anche ogni più piccolo pezzettino di lana veniva utile: pure quello comprato per dieci lire!
Lavorarono un giorno e una notte…
All’alba, finalmente, non restavano più fili da intrecciare. Le coperte erano finite, morbide e calde, pronte per essere portate a quei poveri ghiaccioli che erano ancora sotto l’incantesimo della Strega del Nord.
Tutti insieme, i bambini corsero coi loro caldi pacchi negli angoli delle strade, nelle case, nelle scuole…
Ovunque c’era freddo, portarono le coperte fatte con la lana speciale della Befana.
E, subito, per magia, tutto il ghiaccio si sciolse…

Gli intraducibili: ‘na savarnèda ad….

Un tuffo nella lingua madre, che fa bene al cuore e alla pancia.

Dopo un pomeriggio di calore familiare con un folto gruppo di rappresentanti della Tenera Età (più di sessanta!) al primo compleanno degli incontri organizzati settimanalmente all’Oratorio Marvelli di Viserba Mare, sento l’esigenza di cercare fra le pagine del Dizionario Romagnolo Ragionato di Quondamatteo alcune delle parole “intraducibili” che ogni tanto fanno capolino nella mia memoria.

La prima, “savarnèda”, non è mai stata diretta a me, ma l’ho sentita più volte come minaccia a qualcun altro: “at dàg ‘na savarnèda ad bòti!” oppure “l’à ciapè ‘na savarnèdaad bòti“. Il Dizionario recita: “colpo violento, percossa. Dù savarnèdi. Ho ciap na savarnèda ch’à sò arvènz intramurtìd“.

La radanèda, invece, è l’aggiustatura, la rabberciata. Dat ‘na radanèda! datti un’aggiustata, mettiti in ordine! Radàna c’la cambra! Riordina quella camera!

Rungaja, mar.: pesce piccolo, misto, messo insieme, talora, con pesce ‘buono’ rovinato, morsicato nel travaglio della pesca; pesce da poveri, quindi: Ho tòlt mèz chel d’rungaja (ho comprato mezzo chilo di rungaia). Fig: si dice per bambini piccoli, gente di poco conto: cus èl sta rungaja! (cos’è questa rungaia?)

Quindi, morale della questione: par dè ‘na radanèda ma tòta c’la rungaja, u i vréb ‘na savarnèda ad bès 🙂

T’è capì?

Passeggiate viserbesi. Dalla spiaggia al Lago Riviera percorrendo la Fossa dei Mulini

Torna il sole e la voglia di passeggiate.

La fortuna di abitare a Viserba offre percorsi decisamente interessanti, che sarebbero da proporre anche ai tanti turisti che – peccato per loro! – vedono solo spiaggia, ombrelloni e gelati.

Ecco la mia proposta di itinerario: porticciolo – ex lavatoio – vecchio mulino – ex corderia – lago Riviera.

Si parte dalla spiaggia, all’altezza del porticciolo, appunto. Attraversato il lungomare ci si immette sulla stradina/copertura di quella che fu la Fossa dei Mulini. Passando fra le piccole case che una volta erano abitate da pescatori e marinai, si arriva ai giardinetti sorti nel sito dell’ex lavatoio. Oltrepassata la ferrovia, il panorama cambia, e ci si trova a camminare fra campi e orti fino ai ruderi di un mulino antichissimo. Proseguendo ancora, ecco il muro di cinta dell’ex corderia, che rievoca storie di sudore e mistero… Sulla sua destra, il lago Riviera con gli appassionati di pesca e le loro canne: un luogo adatto anche per un pic nic all’ombra delle grandi piante insieme a tutta la famiglia…

Molte immagini di questi luoghi, così come diversi racconti, sono reperibili nel sito dell’associazione culturale Ippocampo Viserba, di cui mi vanto di essere fra i soci attivi, che da tre anni sta svolgendo un prezioso lavoro di recuperto della memoria del territorio.

Fra gli autori viserbesi che hanno raccontato questo luogo, mi piace citare il professor Enea Bernardi, noto pedagogista ed educatore scomparso nel 1998. Ecco qui di seguito alcune sue pagine.

Dalla Fossa dei Mulini alla Corderia

di Enea Bernardi, 1982

da “Storie su due piedi. Immagini della Memoria” (stampato in proprio, 1995)

 “C’era una volta un canale chiamato, al tempo degli avi, “La Viserba” e poi “Fossa dei Mulini”, dove nuotavano tinche, trote, anguille. Attraversava il paese, in cui era difficile mettere insieme pranzo e cena, e prima di sfociare in mare offriva un riparo alle battane e alle lance dei marinai.

Era il luogo goduto dai pescatori e dai bambini in cerca di emozioni. I ragazzi più grandi, che l’avevano già esplorato, si compiacevano dell’ammirazione di tutti e suscitavano invidia. Il gruppo al quale appartenevo stabilì allora di dare inizio alle nostre spedizioni.

Ed era diventato un rituale estivo. Si attendeva appostati che il marinaio, vinto dalla calura del pomeriggio, si appisolasse all’ombra del capanno, per sottrargli il moscone che teneva nel canale senza remi. Il vecchio, sfingeo nel volto abbrunito, quasi certamente fingeva di dormire, sapeva dei nostri armeggi ma stava al gioco. Forse la nostra intrusione maldestra portava nella sua solitudine un motivo insolito, che lo divertiva.

Partivamo, guardinghi e silenziosi, distesi sopra i galleggianti che portavano inciso il motto “Audaces Fortuna Iuvat”, con l’acqua che ci lambiva il volto mentre oltrepassavamo i ponti bassi delle strade. Si spingeva a fatica con una lunga pertica un’imbarcazione, appesantita dal legno intriso d’acqua, che a noi sembrava una corazzata. Si navigava fieri in mezzo alle lance ormeggiate sotto un tunnel di alberi, in un canale vivo con gli argini fasciati dal legno, e cantavamo a squarciagola.

Lasciavamo la “Torretta di Tognacci”, l’ultima casa dell’abitato, con la sensazione di avere superato le Colonne d’Ercole. Dopo il ponte della ferrovia risalivamo il corso della fossa in una zona deserta, nella quale l’unico fabbricato era il macello a volte risonante di muggiti che mettevano i brividi.

Più avanti la nostra audacia veniva messa a dura prova dai banchi di fango che spesso imprigionavano l’imbarcazione, in mezzo ai canneti che intricavano il passaggio e davano affanno e smarrimento perché chiudevano ogni orizzonte.

Ci inoltravamo fino al mulino dei Leli, allora con le macine ronzanti, oltre il quale sorgeva la vecchia corderia.

Si vedeva appena la punta della ciminiera e la panciuta cisterna dell’acqua ma non la fabbrica che, da quella parte, era cinta da alte mura e da una folta barriera di alberi lungo l’argine del canale fino a monte. Assomigliava ad una fortezza assediata dal verde di una foresta aggressiva in cui regnavano indisturbati bisce e grandi uccelli. Con un abbraccio aggrovigliato l’edera stringeva tronchi secolari di acacie, olmi, pioppi.

Qui, per noi, incominciava l’ignoto insondabile e finiva il viaggio breve che bruciava emozioni ed aspettative segrete. Al ritorno restava il problema di ormeggiare il moscone al suo posto. Il vecchio pescatore ci aspettava lassù in alto sulla banchina della palata, mimava un inseguimento e minacciava in tono semiserio “se vi prendo un’altra volta, vi butto in bocca ai pesci!”. E noi con aria candida rigettavamo la colpa sulla risacca che aveva sciolto l’imbarcazione e che, per non lasciarla alla deriva, eravamo saliti sopra con l’intenzione di attraccarla meglio. A questo punto il marinaio si incattiviva e urlava: “Vi cavo le budella e le metto a seccare sulla rete!”

Un po’ spaventati ci buttavamo in acqua, abbandonando il moscone, e ci mettevamo in salvo sull’altro molo.

Le esplorazioni della Fossa dei Mulini ci fecero sognare per due stagioni approdi in terre sconosciute, naufragi, attacchi di animali e di uomini selvaggi e la nostra onnipotenza paragonabile a quella degli eroi dell’Avventuroso. Alla lunga, tuttavia, con la nostra crescita, questi percorsi finirono per diventare abbastanza prevedibili; escluso il bosco della corderia che a distanza di mezzo secolo resta sempre un’incognita impraticabile a causa degli ordigni esplosivi disseminati dai tedeschi in ritirata. Crebbe con l‘età il bisogno di rinnovare sensazioni ed obiettivi.

La nostra fu l’ultima generazione che risalì il canale, perché con l’arrivo della ricchezza la Fossa dei Mulini diventò una fetida cloaca a cielo aperto con l’unica funzione di scaricare in mare la merda indigena e forestiera. Il boom turistico aveva imbastardito l’etnia e affievolito l’orgoglioso senso di appartenenza al nucleo originario; così decadde la tradizione e l’intelligente buon senso degli anziani insieme al pudore civile.

Il miraggio dell’Eldorado ebbe il sopravvento e trasformò le casette ingentilite da fregi e dimensioni umane in alti contenitori anonimi, e le viuzze luminose in asfittici budelli.

Da un’estate all’altra il canale scomparve, gli misero sopra un coperchio di cemento e divenne un corridoio fra i retro delle case. I bambini di oggi hanno già perso la memoria della Fossa dei Mulini. Passandoci sopra sentiranno soltanto una gran puzza.