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Annalisa e Giovanna: le donne e il dialetto

Il sito “Dialetti romagnoli in rete” curato da Davide Pioggia, linkato da Cristella già da qualche mese, è una continua scoperta. Come tutte le cose buone, va assaporato senza fretta, gustando con calma ogni sua pagina…

Per chi volesse iniziare ad entrare nell’atmosfera, può bastare l’ascolto di qualche poesia, racconto o altro dalla viva voce dell’autore.

Due pillole, brevi: un esempio di dialetto di Santarcangelo con la giovane Annalisa Teodorani (il 16 gennaio 2011 citata in un bell’articolo di Davide Rondoni pubblicato su “Domenica”, l’inserto culturale de Il Sole 24 ore, dal titolo “Spuntano nuovi poeti in Romagna”) che legge “Du an (Due anni) e l’immediatezza tutta riminese della non più giovanissima Giovanna Grossi Pulzoni (di Annalisa potrebbe essere nonna), nota autrice di teatro dialettale, con la barzelletta La pscarìa (La pescheria).

Se serve la traduzione, fasìl savé!

Ortografia unica per la Romagna poliglotta

L’invito è rivolto a dialettofoni, dialettofili, amanti del teatro dialettale e curiosi…

La copertina del libro

Venerdì 26 novembre, alle 18, alla Sala del Giudizio del Museo della Città l’associazione “Istituto Friedrich Schurr” presenta un libro che non può mancare nello scaffale romagnolo degli appassionati. Si tratta di “Do int una vòlta”, una commedia di Giovanna Grossi Pulzoni corredata dal saggio di Daniele Vitali e Davide Pioggia dal titolo “Il dialetto di Rimini”.

Il volume è il frutto di un’intensa attività di ricerca effettuata negli anni dai due studiosi di glottologia, che hanno messo a punto un sistema ortografico unico valido per tutti i diversi dialetti romagnoli.

“L’autrice e regista riminese Giovanna Grossi Pulzoni era la parlante ideale per studiare il dialetto di Rimini”, spiegano gli autori. Quindi Davide Pioggia l’ha intervistata diverse volte e Daniele Vitali ha ascoltato le registrazioni per trascriverne il dialetto.

I due hanno registrato anche un gran numero di altri parlanti di Rimini e dintorni (allargandosi a Valmarecchia, Valconca, San Marino e Pesaro), descrivendo in modo completo la fonologia riminese, con cenni di fonetica e una proposta di ortografia, ossia un sistema di scrittura valido  per tutti ma basato sugli studi fatti e, quindi, coerente.

(Per la cronaca: Maria Morolli, zia del Re Consorte, classe 1918, è stata scelta come testimone parlante per Viserba, visto che qui è nata e sempre vissuta. Durante l’intervista, a cui Cristella ha assistito, il professor Pioggia le ha chiesto se era proprio sicura che da queste parti  “topo” si dice “sòrg” e non “sòrs”. Lei, quasi offesa: “Sicura? Dì, a sarò vècia, ma miga invurnìda!“)

I principi di quest’ortografia vengono da un altro lavoro di Daniele Vitali, “L’Ortografia Romagnola”, ovviamente applicati al sistema specifico del riminese.

Poi Davide Pioggia ha trascritto la commedia con quest’ortografia, così che finalmente anche chi non parla riminese la potrà leggere senza problemi.

Pioggia ha aggiunto al libro uno studio sulla geografia cittadina (in modo che i lettori non pratici di Rimini capiscano cosa s’intende dicendo che, ad esempio, la Barafonda parla in modo leggermente diverso dalla zona di via Covignano), e poi ha messo in rete il sito www.dialettiromagnoli.it che contiene tantissimo materiale, partendo dalla traduzione italiana della commedia fino a un buon numero di poesie di autori dialettali, compresi quelli noti anche fuori dalla Romagna come il santarcangiolese Gianni Fucci.

Del sito piacerà molto ai dialettofili la parte vocale, visto che si potrà fare un viaggio da Imola a Riccione ascoltando le voci recitanti degli autori delle varie zone della Romagna.

Un lavoro completo e multimediale, che dà l’idea reale delle diversità delle nostre parlate.

Solo l’indice dei contenuti fa immaginare la ricchezza del sito: per la provincia di Bologna c’è una sezione tutta dedicata al dialetto di Imola, per Ferrara c’è il dialetto di Argenta, per Forlì-Cesena ci sono tre sezioni (Cesena, San Mauro Pascoli, Sarsina), quattro sezioni per la provincia di Ravenna (Faenza, Fusignano, Ravenna, Sant’Agata sul Santerno) e quattro anche per Rimini (Riccione, Rimini, Saludecio, Santarcangelo).

Il libro (costo 10 euro), presente in alcune librerie di Rimini, può essere richiesto anche all’editore Il Ponte Vecchio di Cesena (tel. 0547 609287) o all’Istituto Friedrich Schürr (tel. 0544 562066).

Sghétul e gatòzli

Essere o non essere, this is the question.

Si, vabbé, lo so che i problemi del mondo sono ben altri, lo so. Se guardo i notiziari di oggi, poi, inorridisco ascoltando notizie di violenze urbane e familiari…

Ma io ora, in questo preciso momento, qui, medito su un dilemma fondamentale… E non so dire perché mi son fissata su tale “question” . Che sia proprio per non pensare ai mali del mondo?…

Dunque: a Rimini/Viserba, luogo in cui abito da 27 anni, il solletico è detto “e’ sghétul” (usato per lo più al singolare), mentre a Gatteo a Mare/Cesenatico, dove ho vissuto prima, si chiama “al gatòzli” (usato più spesso così, plurale femminile). Eppure ci sono solo una ventina di chilometri di distanza… Boh, chissà?

“T’an me fé gnènca un sghétul” (non mi fai neanche un solletico), si dice all’amico o nemico che ti stuzzica.

Allora? Av salùt!

Gli intraducibili: cercando scaramàz arrivo ad scaranèda

Sì, cercando sul Dizionario Romagnolo Ragionato di Quondamatteo la parola scaramàz, sono arrivata ad scaranèda ad un altro termine che come il primo, se proposto in italiano, non rende nemmeno l’idea del significato originario. Per gli amici extraromagnoli urge una spiegazione, che lascio al buon Quondam Gianni.

Eccola…

Scaramàz:  tramestio rumoroso , chiasso, confusione. E’ fèva un scaramàz! (Faceva uno “scaramazzo”!). Sembra, la nostra, una voce onomatopeica. Nel pronunciarla si sente un rumore di vetri infranti, di seggiolate, di stoviglie che si rovesciano.

Scaranèda: colpo di sedia, tempi più seri, meno incruenti. I j a fat al scaranèdi (hanno fatto le seggiolate): tutt’al più c’era qualche testa rotta. Oggi si spara, per una parola, per un sorpasso. Nella locuzione l’è andè via ad scaranèda: si è allontanato in gran fretta, velocemente. Andè zò ad scaranèda (andar giù di scaranata), invece, significava gettarsi in acqua, d’estate, dalla banchina del porto-canale, non di tuffo, ma raccolti con le ginocchia contro il petto e le braccia intorno alle gambe, come seduti su una sedia.

E adesso, av salùt ma tòt!

L’oro dei campi in giugno

Chi nasce in giugno probabilmente porta nel dna i colori del sole e il soffio del vento.

L’oro dei campi in queste giornate che non sembrano finire attira Cristella come fosse di calamita, così come il vento ascoltato e “sentito”, oggi, sotto l’ombra del grande pioppo, accanto alla Sorgente Sacramora.

Sono passati quasi 52 anni: nascere in campagna in questo periodo voleva dire, per un bimbo, trovarsi un piccolo spazio fra mille lavori dettati dalla stagione.

Uno di questi era la battitura del grano. Non avendo più a disposizione le preziose memorie dei genitori, provo a ricreare l’atmosfera di quella sera di giugno, quando Pierina dovette fermarsi, dopo un pomeriggio passato al caldo a raccogliere i fagioli, per dare alla luce la sottoscritta.

LA BATDURA (la battitura)

da “Romagna e civiltà” di Gianni Quondamatteo e Giuseppe Bellosi, Grafiche Galeati – Imola, 1977.

Ancora negli ultimi decenni dell’Ottocento il grano veniva battuto con la pietra: questa era di sasso, di forma appiattita, grosso modo triangolare, con un vertice arrotondato, fornito di un foro attraverso il quale passava un palo, sporgente dalle due facce: alla sua parte inferiore veniva fissato il timone mobile (la zérla), al quale si aggiogavano le bestie, a quella superiore si teneva stretto l’uomo che stava seduto sulla pietra come zavorra. Perché il timone potesse muoversi bene, o, come dicevano i contadini, potesse avé un pò ad zugh (aver  un po’ di gioco), la pietra aveva un’incavatura nella faccia inferiore, nella posizione del timone.

Il lato opposto al vertice, quello che strisciava sul grano, aveva delle scanalature orizzontali (nel senso della larghezza), che facilitavano la trebbiatura: la pietra infatti, strisciando sul grano, faceva uscire i chicchi che si incanalavano nelle scanalature e così non si sbriciolavano. Ovviamente se le scanalature fossero state verticali, cioè lungo la direzione del movimento, le spighe ci si sarebbero infilate dentro, senza che i chicchi uscissero.

Una pietra pesava in media dai due ai tre quintali ed era generalmente trascinata da due vacche o cavalli o asini.

Prima di battere, Continua a leggere