Le ubriache di canapa

“Filami, non fumami”: questo il titolo di una cena speciale a cui Regina Cristella e Re Consorte hanno avuto il piacere e l’onore di partecipare venerdì 9 settembre.

Poco più di un’ora in auto, in un caldissimo pomeriggio, per arrivare da Viserba a Jesi, in provincia di Ancona. La meta del viaggio era l’ex casino di caccia del marchese Trionfi Honorati (no, non scherzo: un nobile vero!). Ecco la conferma: i siti del Caseificio Piandelmedico e del ristorante Il Casino del Marchese, nonché la notizia dell’evento.

In poche parole. Antonio Trionfi Honorati, oltre ad allevare circa 300 fra vacche e bufali che forniscono il latte per la filiera a chilometro zero che comprende prima di tutto il caseificio diretto dalla sorella Giulia, ha deciso di tentare una nuova avventura: reintrodurre sul territorio non solo marchigiano la coltivazione della canapa finalizzata alla produzione della fibra tessile, così come avveniva in molte parti d’Italia fino alla prima metà del secolo scorso.

“Nuove opportunità imprenditoriali in agricoltura dalle grandi potenzialità per il futuro, sul filone del naturale e del biologico – ha detto al pubblico presentando il suo progetto – ma soprattutto si potranno creare posti di lavoro.” Vi pare poco?

Decisamente piacevole e originale, la cena all’aperto servita in uno scenario suggestivo, sulla prima collina che guarda in faccia l’antica città di Jesi: olio di canapa, pane ancora tiepido fatto con farina di canapa (dunque senza glutine!), formaggi appena usciti dal caseificio di famiglia.

 

 

 

 

 

 

 

E che dire della giovane marchesa, munita di parananza, che immerge le mani nell’acqua bollente per preparare in diretta tanta tante mozzarelline per i suoi ospiti?

Una serata che meriterebbe il bis.

Ma come mai Cristella era lì? Come succede per la canapa, prima si semina, poi si raccoglie: il libro “Trama o ordito”, pubblicato nel lontano 1999, evidentemente è ancora attuale, visto che chi cerca notizie sulla coltivazione di questa fibra… arriva anche da queste parti. Quindi, come autrice di una storia “sul filo dei ricordi”, la presenza all’evento era gradita.

Luogo bello, cibi freschi e buoni, gente interessante, nuovi amici.  Cosa chiedere di più dalla vita?

E, per finire in bellezza, ecco le pagine scritte da Benedetto Benedetti per “Trama e ordito”. Si parla dell’effetto “ubriacante” di chi era addetto, in campagna, alla lavorazione della fibra di canapa.

Ogni riferimento alla smorfia sul volto di Cristella causato dal forte odore prodotto dal fascio di canapa sativa raccolta da Antonio… è puramente casuale.

Sembro ubriaca? Un po’ matta di sicuro….

 

 

 

Da “Trama e ordito, mamme che tessono la vita” di Maria Cristina Muccioli (ed. Il Ponte Rimini, 1999).

Benedetto Benedetti è artista poliedrico: sceneggiatore, attore, poeta. Amico di Federico Fellini e Tonino Guerra, compagno di scuola di Sergio Zavoli, è nato a Perticara, in provincia di Pesaro, ma è riminese a tutti gli effetti. Una persona originale, un po’ fuori dagli schemi.

Il suo contributo al nostro ciclo della canapa non poteva essere che… “birichino”.

Le ubriache di canapa

Il circolo di scambio tra agricoltura e morale ha sempre imposto, in tempi di morale occultativa, numerosi e frequenti omissis, riportati nell’adagio “Io contro gli animali, niente; però loro da una parte ed io dall’altra”.

Dalla parte umana, convenzioni sociali e tabù che gli animali potevano e dovevano ignorare. Per intenderci: a una ragazzina di campagna la storia dei bambini trovati sotto il cavolo prima della guazza, non valeva la pena raccontarla perché i suoi insegnanti erano galli, tori e montoni. La scuola di morale realistica, peraltro, non si limitava agli animali: comprendeva anche i vegetali.

Primo in ordine di importanza, perché mescolato pericolosamente al grano, il loglio (la zizzania) di mescalinici poteri. Un allucinogeno che rompeva gli schemi, confondendo i due ben distinti emisferi.

Seconda, e con impatto d’ancora più subdole voglie, la canapa.

Si tratta d’una vasta famiglia distinta dalla radice greca cannabis. Da noi allignava la cannabis sativa, all’origine in Asia Centrale, ora in tutto il mondo coltivata. Particolarmente apprezzata quella emiliana, per qualità e resistenza dei cordami e tessuti derivati. Con il difetto, però, di un attinente pericolo nella nota olfattiva. Attraverso il naso, infatti, pesanti e pericolosi effluvi respirati entravano nel sangue e, ahimè, attentavano alla morale, cioè alla netta distinzione nel già detto circolo di scambio tra agricoltura e morale.

La canapa, seminata a marzo, veniva raccolta a luglio. Gli steli privati di cime e radici passavano al macero in acqua, legati in fasci che formavano zattere sommerse, Da quattro a dieci giorni si lasciava lavorare il bacillus felsineus, propizio alla macerazione, quindi si separava il tiglio, o parte tessile, che serviva per spaghi, cordami e tessuti pesanti. Lenzuola di canapa erano quelle “di sotto”, che fasciavano il materasso: adatte ad accogliere il peso del corpo, mentre per il lenzuolo “di sopra” si preferiva il cotone.

Si separava il gambo macerato dal filamento mediante la gramola, arnese di due legni, uno dei quali entra nell’altro per rompere i gambi e separare il tiglio dal tessuto.

L’operazione della gramolatura era un vero attentato alle istituzioni; le gramolatrici s’ubriacavano di quel sentore di canapa (cugina della cannabis indica da cui marijuana e hashish), con la conseguenza d’un affollarsi di giovinotti detti ”premurosi”, solleciti, quando fossero al punto giusto imbarlocchite, a caricarle sulla canna della bicicletta e poi infrattarsi in accoglienti recessi.

Eccoci quindi all’eterno problema morale-agricoltura.

L’autorità ecclesiastica espresse ripetutamente la sua paterna sollecitudine e preoccupazione per questa operazione. Abbiamo documento, nelle risposte dei parroci all’inchiesta napoleonica sui contadini, che monsignor Piazza, vescovo di Forlì, aveva disposto “che resti vietato il gramolare la notte, e a fronte a ciò si gramolava di giorno”.

La variante occultativa trova, nelle descrizioni dei buoni parroci, momenti di tenerezza che arrivano alla poesia. Trascriviamo da “Romagna tradizionale” di Paolo Foschi:

Evvi un grande concorso di gioventù dove sono le gramadore, specialmente la sera e la notte: se erano a venire gl’Amanti, comincia, o queste a cantare: ‘Vieni, vieni, il mio amore, che t’aspetto a tutte l’ore’. Gl’Amanti ed altri che cercano di farsi merito, regalano le Gramadore portandogli un sacco o mezzo sacco di cocomeri o di melloni, belle persiche, pere, ecc. Arrivati gli amanti, fanno forti battute sulla gramma in segno d’allegrezza, quindi così cantano: ‘Bel giovinén che a si rivè da non, botta l’udor coma fa i viol’. Quindi: ‘Giovinetta, fa cantè la grama che e’ Viol l’è sotta la capana’. Terminata la gramolatura, quasi tutta la sera fanno festa da ballo.” (Giovanni Metri, arciprete di Romiti).

Evvi pure – prosegue Michele Placucci di Forlì – nel tempo del gramolare, un uso stravagante: se accade che essendo ivi ambedue gli amanti, passi per via un altro pretendente o rifiutato o non corrisposto, tanto la morosa che nol cura quanto le compagne, battono velocemente le gramole in modo concertato in atto di deriderlo che chiamasi la ‘battuta’. Al sentire la ‘battuta’, lo schernito giovane tira due archibugiate all’aria, facendo, dice egli, le corna ossia dispetto all’amante prediletto, e questo tira altro colpo di pistola dicendo di rompere le  corna e concambiare il dispetto; l’altro replica i colpi ai quali vien risposto, e così le tante volte durano gran parte della notte e qualche disgustato colla morosa, se egli non si vendica col tirare le due archibugiate di sopra enunciate, canta la seguente canzone:

O gramadori da la testa plèda

an savì gnanca fè la sbatulèda:

o gramadori ch’avì magnè e’ furmai,

unzìv la pènza cun un spigul d’aj!

 

O gramolatrici dalla testa pelata

non sapete neanche fare la battuta;

o gramolatrici che avete mangiato il formaggio

ungetevi la pancia con uno spicchio d’aglio

 

Come si vede, scene da western e dispetto di nonsense. Quadro di gente alticcia, se non ubriaca. E ubriachi lo erano.

Ma si racconta l’effetto senza toccare la causa: la canapa, che bisognava pure gramolare, quali fossero gli effetti. Lasciando qualche valvola di sfogo alla subdola circolazione della parente dell’hashish.

Che poi, se dalle manovre derivava qualche conseguenza di nascite irregolari o “boscaiole”, si tornava al principio. “L’è – si diceva – un fiul d’la canva” (è un figlio della canapa).

Un pensiero su “Le ubriache di canapa

  1. Giovanni

    … e quindi non era leggenda quella che raccontava la Signora Luisa di Massalombarda, sottovoce per non dare scandao ai più piccini, di clamorose esplosioni di erotismo nelle campagne al tempo della “gramolatura”!

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