L’oro dei campi in giugno

Chi nasce in giugno probabilmente porta nel dna i colori del sole e il soffio del vento.

L’oro dei campi in queste giornate che non sembrano finire attira Cristella come fosse di calamita, così come il vento ascoltato e “sentito”, oggi, sotto l’ombra del grande pioppo, accanto alla Sorgente Sacramora.

Sono passati quasi 52 anni: nascere in campagna in questo periodo voleva dire, per un bimbo, trovarsi un piccolo spazio fra mille lavori dettati dalla stagione.

Uno di questi era la battitura del grano. Non avendo più a disposizione le preziose memorie dei genitori, provo a ricreare l’atmosfera di quella sera di giugno, quando Pierina dovette fermarsi, dopo un pomeriggio passato al caldo a raccogliere i fagioli, per dare alla luce la sottoscritta.

LA BATDURA (la battitura)

da “Romagna e civiltà” di Gianni Quondamatteo e Giuseppe Bellosi, Grafiche Galeati – Imola, 1977.

Ancora negli ultimi decenni dell’Ottocento il grano veniva battuto con la pietra: questa era di sasso, di forma appiattita, grosso modo triangolare, con un vertice arrotondato, fornito di un foro attraverso il quale passava un palo, sporgente dalle due facce: alla sua parte inferiore veniva fissato il timone mobile (la zérla), al quale si aggiogavano le bestie, a quella superiore si teneva stretto l’uomo che stava seduto sulla pietra come zavorra. Perché il timone potesse muoversi bene, o, come dicevano i contadini, potesse avé un pò ad zugh (aver  un po’ di gioco), la pietra aveva un’incavatura nella faccia inferiore, nella posizione del timone.

Il lato opposto al vertice, quello che strisciava sul grano, aveva delle scanalature orizzontali (nel senso della larghezza), che facilitavano la trebbiatura: la pietra infatti, strisciando sul grano, faceva uscire i chicchi che si incanalavano nelle scanalature e così non si sbriciolavano. Ovviamente se le scanalature fossero state verticali, cioè lungo la direzione del movimento, le spighe ci si sarebbero infilate dentro, senza che i chicchi uscissero.

Una pietra pesava in media dai due ai tre quintali ed era generalmente trascinata da due vacche o cavalli o asini.

Prima di battere, l’aia veniva ripulita: si faceva la cosiddetta imbuinéda, che consisteva nello stendere con le scope di tamerisco (al garné d’tamarés) lo sterco bovino (la buaza) mescolato ad acqua, pareggiando così il cortile ed eliminando la polvere. Talvolta l’aia veniva soltanto inumidita con acqua e battuta e pareggiata con paletti.

Verso sera, se si profilava una buona nottata senza guazza, specialmente se soffiava la curéna (vento caldo fra ponente e libeccio) i contadini stendevano le spighe in tondo sull’aia ripulita, cosi la mattina dopo, di buon’ora, tutto era pronto per l’inizio del lavoro. Si faceva girare la pietra per un verso, poi le bestie venivano spostate ai margini dell’aia e con le forche si rivoltava la paglia; quindi si faceva girare la pietra per il verso opposto. In una stessa aia a volte si trebbiava con due o anche tre pietre, a seconda della quantità di grano. Con una pietra si battevano da quindici a venti sacchi al giorno (un sacco pesava circa 110 kg.): i contadini dicevano che ne trebbiavano un carro e mezzo (un carro era di dieci sacchi).

Alla battitura seguiva la spulatura. Si attendeva una giornata di vento e con le pale di legno (i palò) si lanciavano il alto grano e pula; il grano ricadeva a terra e la pula, più leggera, era portata via dal vento. Ma tra il grano rimaneva sempre qualche residuo (terra, semi di erbe, sassolini) ed era necessaria una seconda pulitura.

Le piccole quantità di grano si battevano con il correggiato (la zércia), uno strumento formato da due bastoni (uno corto e uno lungo) uniti da una correggia di cuoio o da una corda: il bastone lungo veniva impugnato, con l’altro si batteva facendolo roteare ritmicamente. Talvolta gruppi di giovani muniti di zércia passavano a battere da contadino a contadino.

Si poteva battere anche con i cavalli, specialmente se si possedeva un’aia pavimentata; le spighe venivano distese in tondo e i cavalli fatti girare intorno in coppia, con gli zoccoli sferrati (per non sbriciolare i chicchi). Questo tipo di trebbiatura si eseguiva al tramonto, perché i cavalli non fossero affaticati dal caldo.

All’apparire delle prime trebbiatrici (1870 circa) la gente diceva che si sarebbe durato poco a trebbiare con la macchina, perché occorreva troppa legna (per azionare la macchina a vapore) e perché non si poteva sgranare il grano col diavolo (rappresentato, per i contadini, dal fuoco). Dicevano anche che il grano doveva purgarsi al sole e che a insaccarlo subito si sarebbe dato da mangiare alle tarme: infatti i contadini erano abituati a lasciare il grano sull’aia per otto e dieci giorni: tre o quattro per batterlo e altrettanti o più per esporlo al sole e poi spularlo e insaccarlo.

Il lavoro di misurazione e insaccatura avveniva sempre alla presenza del padrone o di un uomo di sua fiducia: lo eseguiva una persona esperta, perché i sacchi riuscissero il più possibile uguali. Come misura  su usava lo staio (e stér).

3 pensieri su “L’oro dei campi in giugno

  1. Cristella

    Oggi, 52 anni fa. “Era molto caldo -raccontano mio fratello e le mie sorelle – La mamma e il babbo raccoglievano i fagioli e noi, bambini, dovevamo portare i cesti. Eravamo stanchi perché si era fatta sera, anche se c’era ancora luce. Il babbo ci diceva: ‘Dai, burdél, arivém fin a lé e pò a smitém (dai, bambini, arriviamo fino là e poi smettiamo)’. E invece non si finiva mai. Tu sei nata dopo le nove, forse erano già le dieci di sera. Ci hanno mandato a dormire dai vicini, nella casa di Piroun ad Vizòt. Quando al mattino Piroun è venuto a svegliarci, ha detto: ‘Stasì sò,l’è nèda un’èltra pisòta! (alzatevi, è nata un’altra pisotta!’).”

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